31.5.14

First but last.

Mentre tutti si preparano con ansia al Mondiale che si svolgerà tra pochi giorni in Brasile, dall'altra parte del mondo si è assegnato l'ultimo posto disponibile per la Coppa d'Asia del prossimo gennaio. In Australia arriverà una cenerentola e giusto ieri si è conclusa l'AFC Challenge Cup. Il torneo, svoltosi nelle Maldive, rappresenta una sorta di trampolino di lancio per quelle nazionali minori che vogliono esserci nella rassegna continentale. L'ha spuntata la Palestina, che ha trionfato sulle Filippine nell'ultimo atto della manifestazione.

Grande accoglienza del popolo delle Maldive per l'AFC Challenge Cup.

Fondata nel 2006, l'AFC Challenge Cup è una competizione nata da poco. Essa rappresenta una parte del programma "Vision Asia": nella mente del suo creatore (l'ex presidente dell'AFC bin Hammam), l'obiettivo è quello di valorizzare le squadre più piccole del calcio continentale, in modo da tale da alzare il livello della competizione. Proprio a questo scopo, il vincitore del trofeo si qualifica direttamente all'edizione della Coppa d'Asia più vicina.
Un bel game-changing, che negli anni ha portato molte nazionali a migliorarsi e quest'edizione non ha fatto sicuramente sconti. Tuttavia, c'è una novità per il futuro: questa nelle Maldive è stata l'ultima edizione dell'AFC Challenge Cup, che di fatto viene abolita. C'è un motivo: dal 2019, la Coppa d'Asia non sarà più a 16 squadre, bensì a 24. In un certo senso, l'AFC segue l'evoluzione dell'Uefa, che vedrà nel 2016 il primo Europeo a 24 squadre in Francia. Così facendo, i primi gruppi di qualificazione per la Coppa d'Asia e per la zona asiatica dei Mondiali verranno uniti: ci saranno otto raggruppamenti, in cui le prime di ogni girone più le migliori quattro passeranno sia all'ultimo round delle qualificazioni al Mondiale che alla fase finale della Coppa d'Asia. Un bel cambiamento, con le 24 migliori non-qualificate che poi si giocheranno gli altri posti per la rassegna continentale, mentre le qualificazioni per il Mondiale nel suo round finale verranno separate da quelle per la Coppa d'Asia.
L'AFC Challenge Cup divideva le nazioni asiatiche in tre categorie: nazioni sviluppate, quelle in via di sviluppo e quelle emergenti. Queste ultime, le più deboli, raramente hanno vinto il torneo, poiché ad avere la meglio sono state spesso le nazioni in via di sviluppo, più attrezzate per la vittoria finale. Inoltre, nella prima edizione la conquista del trofeo da parte del Tagistikan non valse la qualificazione alla Coppa d'Asia del 2007. Cosa che, invece, ha poi qualificato alla rassegna continentale prima l'India (vincitrice nel 2008) e èpo la Corea del Nord (bis di successi tra il 2010 e il 2012). Se ho definito l'edizione 2014 speciale, è per tanti motivi. Per la prima volta, chi ospita il torneo si è qualificato di diritto. Le prime quattro di quest'annata hanno tutte migliorato la loro posizione più alta nella storia del torneo. C'è stata una nuova vincitrice, la prima tra i paesi emergenti nell'ultima edizione mai disputata dell'AFC Challenge Cup. Ma vediamo cosa è successo nel dettaglio...

Le Filippine si sono dovute accontentare del secondo posto.

I favoriti del torneo erano sopratutto nel girone B, dove Filippine e Turkmenistan sono sembrate le squadre più attrezzate ed esperte. Specie gli ex sovietici, che in Coppa d'Asia c'erano già arrivati nel 2004. A completare il girone il Laos e sopratutto l'Afghanistan, che ha tentato il miracolo. Diversa la situazione del raggruppamento A, quello dei padroni di casa delle Maldive. Qui le sorprese erano dietro l'angolo, con Palestina, Kyrgyzstan e Myanmar che reclamavano un po' di spazio. Quest'ultima nazione, per altro, aveva già partecipato anch'essa alla Coppa d'Asia nel 1968: arrivò seconda, ma all'epoca si chiamava ancora Burma.
Il torneo è stato interessante, con qualche sconvolgimento fin dall'inizio. Le Maldive hanno superato il girone, seppur la squadra di casa ce l'abbia fatta da seconda classificata. Con loro è passata la Palestina, prima del raggruppamento. Nel girone B, le Filippine si sono dimostrate la squadra migliore, mentre a sorpresa è uscito il Turkmenistan ai danni dell'Afghanistan. Arrivati alle semifinali, proprio gli afghani hanno perso cinque giocatori titolari per un'incidente ai danni del bus della squadra (circostanze ancora da chiarire). Fatto sta che le assenze hanno pesato e la Palestina ha vinto 2-0 la gara. Molto più difficile è stata la partita delle Filippine, che hanno battuto i padroni di casa delle Maldive solo 3-2 ai supplementari. Se nella finalina per il terzo posto c'è stata la gioia per i padroni di casa ai calci di rigore, ben diverso è stato lo scenario per la finale. La Palestina ha trionfato per 1-0, ma è riuscita a sbloccarla solo su punizione: la firma è stata del capocannoniere del torneo, Al-Fawaghra. Da lì, pochi i pericoli corsi e grande delusione per le Filippine, che ha diversi giocatori europei nelle sue fila ed è guidata dall'ex capitano della nazionale americana, Thomas Dooley.
Così la squadra di Mahmoud - tecnico giordano, alla guida della Palestina dal 2011 - ha festeggiato il primo trofeo della sua breve storia. Un trofeo giunto, per altro, senza concedere un gol nella fase finale. Bisogna anche ricordare che non è facile giocare a calcio in quel paese e l'immagine dei supporters che a Gaza guardano la partita è stata toccante. Ora si festeggia, visto che con questa vittoria la Palestina parteciperà alla Coppa d'Asia che si svolgerà in Australia nel gennaio prossimo. Certo, le speranze di qualificazione sono praticamente nulle di fronte a Giappone, Iraq e Giordania, ma l'importante è esserci. Insomma, è stata la prima volta per la Palestina, che finalmente ha qualcosa da festeggiare nel calcio. E almeno in questo, forse, sopravanza Israele, rinchiusa nell'Uefa ma impossibilitata a rendersi protagonista nel calcio europeo. Ma è stata anche l'ultima volta per l'AFC Challenge Cup, nonostante una buona partecipazione di pubblico alle Maldive. Un first but last indimenticabile.

Festa per le strade di Ramallah: la Palestina sarà nella Coppa d'Asia 2015.

29.5.14

ROAD TO JAPAN: Takumi Minamino

Buongiorno a tutti e benvenuti a un'altra puntata di "Road to Japan", la rubrica che prova a consigliarvi i migliori talenti che stanno sbocciando sulla scena del calcio nipponico. Oggi mi sposto in quel di Osaka, sponda Cerezo, dove gioca un ragazzo ancora giovanissimo, ma già sulla bocca di molti addetti ai lavori. Chissà che non trovi spazio già dal post-Mondiale nella nazionale giapponese: sto parlando di Takumi Minamino, trequartista e prodotto del Cerezo Osaka.

SCHEDA
Nome e cognome: Takumi Minamino (南野 拓実)
Data di nascita: 16 gennaio 1995 (età: 19 anni)
Altezza: 1.74 m
Ruolo: Ala sinistra, trequartista
Club: Cerezo Osaka (2007-?)



STORIA
Nato in quel di Izumisano, nella prefettura di Osaka, Takumi Minamino entra ben presto nelle giovanili del Cerezo: nel 2007 è già nell'U-15 del club, con la quale disputa un ottimo torneo fra i pari-età giapponesi. Risulta addirittura il capocannoniere della competizione, nonostante il Cerezo Osaka esca ai quarti. Il ragazzo realizza 13 gol in quattro partite: si capisce che è un mostro, tanto che nel 2010 è già nell'U-18, nonostante abbia solo quindici anni. Insomma, la storia è quella di un predestinato: mentre Kagawa, Inui e Kiyotake crescono nel club che fu di Morishima, Minamino si fa spazio nelle formazioni giovanili, dove fa parlare di sé in ogni modo possibile.
Anche alla J-League Youth Championship del 2011, il prodotto del Cerezo Osaka si fa notare: la sua squadra arriva in finale e lui è nuovamente capocannoniere, con 13 gol in sette gare. Levir Culpi, tecnico brasiliano del Cerezo, non può fare a meno di metterlo in prima squadra dall'agosto del 2012 fino a fine campionato. Il club lotta per salvarsi, ma c'è il tempo per far esordire Minamino in J-League. Il ragazzo però non si ferma qui, visto che realizza anche il suo primo gol da professionista nella gara di coppa contro lo Shimizu S-Pulse nel dicembre di quell'anno.
Il 2013 è stato l'anno della parziale esplosione. Dico "parziale" perché credo che il ragazzo possa diventare devastante, mentre per ora si è visto forse solo il 50% del suo vero potenziale. Che è comunque bastato al Cerezo Osaka per arrivare in zona Champions League asiatica e disputare un'ottima stagione. Per Minamino è arrivato il primo gol anche in J-League - sul campo del Jùbilo Iwata - e una serie di riconoscimenti per la sua ottima stagione: MVP tra i giovani del campionato e il Japan Professional Sports Gran Prize. Un'annata da otto gol in 38 presenze, ma sopratutto quella dello straordinario exploit in un'amichevole contro il Manchester United. Anche gol così ti cambiano la carriera.

CARATTERISTICHE TECNICHE
Come molti dei trequartisti che hanno ispirato calcisticamente il Giappone negli ultimi anni, Minamino non fa eccezione: ottimo controllo di palla, capacità di dribbling rapido, riflessi e un buon tiro dalla distanza. Semmai, rispetto ai vari Nakamura & co., gli manca ancora una certa sensibilità nell'ultimo passaggio. Ma sono cose che un ragazzo di 19 anni può solo che acquisire con il passare del tempo. Fisicamente dovrà farsi, altrimenti un viaggio per un club in Europa o in Sud America sarà impossibile.

STATISTICHE
2012 - Cerezo Osaka: 5 presenze, 1 rete
2013 - Cerezo Osaka: 38 presenze, 8 reti
2014 - Cerezo Osaka (in corso): 12 presenze, 2 reti

NAZIONALE
Niente nazionale maggiore per lui sinora, ma è anche vero che Zaccheroni lo ha inserito tra le sette riserve per il Mondiale ai 23 convocati. Ciò significa che il futuro è dalla sua parte: viene da chiedersi se Minamino sarà già considerato per gennaio, quando ci sarà la Coppa d'Asia. Del resto, nuove forze fanno sempre comodo alla Nippon Daihyo, specie se così giovani e talentuose. E poi c'è un passato nelle rappresentative nipponiche: Minamino fu il bomber dell'U-16 del Giappone che arrivò alle semifinali del campionato continentale del 2010. L'anno dopo, il giovane del Cerezo Osaka era la stella anche della nazionale che disputò il Mondiale U-17 in Messico, ma gli infortuni lo frenarono. Ora ci sono due appuntamenti che sicuramente lo attendono: la rassegna continentale per l'U-19 in ottobre e - se il Giappone passerà le qualificazioni - è probabile che Minamino rientri nel gruppo per le Olimpiadi di Rio del 2016.

LA SQUADRA PER LUI
Per ora, la miglior cosa è restare a Osaka. E' una lezione già appresa in passato: nonostante siano promettenti, i vari talenti passati in casa Cerezo non se ne vanno alla prima offerta che capitava. Pare che sulle sue tracce ci sia il Feyenoord (che ha già avuto Miyaichi tra le sue fila), ma finire la stagione in Giappone pare la cosa migliore. Del resto, essendo un classe '95, il tempo è solo dalla sua parte. E chissà che un giorno non lo vedremo con la nazionale giapponese in un trio di trequartisti tutto creato a Osaka: Kagawa, Kiyotake e... Minamino.

27.5.14

Una splendida serata.

Di belle storie il calcio è pieno, ma raramente queste accadono nei grandi palcoscenici d'Europa. Dalla prossima stagione, però, una di queste sarà nella Liga. Qualcuno penserà che l'epicentro dei festeggiamenti in Spagna sia a Madrid, ma domenica è iniziata un'altra festa di grande impatto: l'Eibar è in Liga. Con la vittoria sull'Alavés e la sconfitta del Las Palmas, il club è promosso nella massima divisione iberica per la prima volta nella sua storia.

L'Ipurua Municipal Stadium, l'impianto di casa per le partite dell'Eibar.

Nessuno avrebbe scommesso un euro su questa piccola formazione basca, che gioca in un impianto - l'Ipurua Municipal Stadium - da 5250 spettatori (che, nonostante ciò, ha l'autorizzazione dell'Uefa). Tuttavia, la media è di 3000 presenze in questa stagione: un incremento del 120% rispetto alla passata annata, ma la platea dell'Eibar è il fanalino di coda della Segunda. 
Tanto per fare un paragone, la media-spettatori di Barca e Real quest'anno è stata 24 volte superiore. Oppure: la somma delle presenze all'Ipurua Municipal in questa stagione non batte la partita in cui il Barca ha avuto meno spettatori (53mila vs. 56mila!). L'Eibar ha un budget per il 2013-14 di 400mila euro: chiamarlo miracolo non è un'esagerazione, bensì un dovere.
Fondato nel 1940, l'Eibar ha militato nelle categorie meno nobili del calcio spagnolo fino a installarsi in un ascensore che faceva su e giù tra la Segunda División e la Segunda B (la terza serie iberica). I suoi colori blaugrana rimandano al Barca, che a metà degli anni '40 ha venduto all'Eibar le attrezzature per allenarsi. 
Negli anni 2000, il club ha comunque ospitato la crescita di Xabi Alonso, Manuel Almunia e David Silva hanno giocato in prestito all'Eibar. Retrocesso qualche anno fa dalla Segunda, l'Eibar si è fatto notare nella Copa del Rey 2012-13. I baschi eliminano l'Athletic Bilbao in un doppio confronto grazie ai gol in trasferta e quasi elimina il Malaga. 
In una stagione così, sembra quasi normale la risalita dell'Eibar in Segunda División, arrivata solo nell'appendice dei play-off. Infine, il miracolo di quest'anno. Un miracolo costruito con poche risorse e tanto entusiasmo, nonché grazie a un allenatore capace. L'uomo del miracolo è Gaizka Garitano, tecnico basco di 38 anni. 
Ex centrocampista, Garitano ha concluso la sua carriera da giocatore nel 2009. La sua carriera partiva dal sogno di giocare con l'Athletic Bilbao, ma in realtà viene schierato solo per la squadra riserve. Poi l'avventura proprio con l'Eibar per quattro anni, finendo con Real Sociedad e Alavés. Dopo aver appeso gli scarpini al chiodo, Garitano è tornato subito in gioco, ma in panchina. 
Con l'Eibar, amore della prima ora, è stato prima assistente nel 2009-10, poi allenatore della squadra riserve per due anni. Dal 2012, Garitano è il tecnico della prima squadra: sono arrivate due promozioni in due stagioni. Ora il suo contratto scade a giugno e vedremo se e come rimarrà con il club che ha trascinato in questi anni.

Gaizka Garitano, 38 anni, il condottiero dell'Eibar dei miracoli.

Facile capire dove l'Eibar abbia costruito il suo risultato: il club basco ha la miglior difesa della Segunda División con soli 27 gol subiti (questo è il bilancio a due gare dalla fine). E non c'è nessuno in squadra che abbia un rendimento da doppia cifra: il capocannoniere della squadra è Jota, 22enne in prestito dal Celta Vigo, nove reti quest'anno con l'Eibar. 
Già, i prestiti: il club basco ha in concessione temporanea diversi giocatori e bisognerà vedere se il loro futuro sarà ancora con l'Eibar. Su transfermarkt, il valore totale della squadra è di quasi sette milioni. E adesso potrebbe arrivare anche la vittoria del campionato: l'Eibar ha un punto di vantaggio sul ben più blasonato Deportivo La Coruña, anch'esso promosso ieri dopo un anno di purgatorio. Due giornate per giocarsi qualcosina in più della promozione.
Ora però c'è un problema: l'ammissione in Liga non è ancora certificata. Certo, sul campo l'Eibar se l'è strameritata, ma ci sono i regolamenti. Per giocare il massimo campionato spagnolo ci vuole un capitale societario di almeno due milioni di euro, mentre l'Eibar - come detto sopra - si attesta a 400mila euro. 
Insomma, ci vorrà un'estate per raccogliere il mancante milione e 600mila euro per far sì che il miracolo Eibar non sia soltanto un volo pindarico, un orgasmo esoterico del calcio ma anche una vera realtà nella prossima Liga. Tanto che il club - sul suo account ufficiale di Twitter - ha già lanciato l'appello per donare una quota all'Eibar. In una città basca di 27mila abitanti, si spera che il risultato possa esser raggiunto presto. Altrimenti, sarà stata una splendida serata. E niente più.

25.5.14

Una decima di sofferenza.

Doveva esser spettacolo, ma lo è stato solo per i nervi. Una partita brutta, giocata male da una squadra (in maniera volontaria) e peggio dall'altra (qui nessuno sforzo: è venuto naturale). Questa è stata Atletico-Real, la sfida che ha fermato Madrid per una serata intera. Una sfida immobile fino al 93', quando i colchoneros avevano la coppa a due passi: poi la testata di Ramos ha scritto un'altra storia, che poteva finire solo con la decima per i blancos.

Gareth Bale, 24 anni, il match-winner di Lisbona: il suo gol è valso la decima al Real.

La tanto attesa vittoria non è arrivata come ci si aspettava. Il Real, stra-favorito alla vigilia, ha faticato esattamente come voleva Simeone. Con il solito assetto spregiudicato, Ancelotti non è riuscito a sfondare la muraglia rojiblanca, che ha respinto molti assalti degli avversari. Simone e il suo 4-4-2 ferreo, ma con soli centrocampisti centrali, ha creato una situazione di stallo perfetto per l'Atletico. Non bastavano i soli spunti di Di Maria ad aprire la cassaforte.
E così quando l'Atletico è passato in vantaggio al 37' con un colpo di testa di Godìn sulla prima azione vera, si è creato lo scenario per il delitto perfetto. In vantaggio e con una difesa di ferro, i colchoneros avevano una grande possibilità di fronte a un Real spaesato. Difendersi e poter pungere in contropiede era lo schema ottimale per la squadra di Simeone. Che però non ha veramente punto nella ripresa: un tiraccio di Raul Garcia, un tentativo di Adrian, ma poco altro. Negli ultimi 10' più recupero, il baricentro dell'Atletico si è abbassato in maniera spaventosa: c'erano i due attaccanti che praticamente facevano da difensori aggiunti, cercando di fermare le avanzate centrali di Modric e Isco.
Quando poi Ramos ha incornato l'1-1 al 93', la partita era virtualmente finita: lo scenario psicologico apertosi con quel gol era stra-favorevole al Real, già più forte nonostante i cambi azzardati. Inoltre, senza altre sostituzioni da giocarsi, Simeone poteva sperare che succedesse un miracolo. E non è successo. L'Atletico ha fatto un'ottima stagione, ma è arrivato a giocarsi la partita più importante dell'anno senza Diego Costa, senza Arda Turan (ieri son mancate le sue accelerazioni) e senza una grandissima condizione fisica. Vanno comunque fatti i complimenti a giocatori come capitan Gabi (commovente), Courtois (il 2-1 l'aveva evitato...) e il duo centrale che ha preso praticamente tutto. Tranne Ramos al 93'.
A Simeone, espulso nel finale per un bisticcio con Varane, c'è poco da rimproverare. Oddio, la cazzata - passatemi il termine - di giocarsi un Diego Costa totalmente fuori condizione e sprecare un cambio all'ottavo del primo tempo è stata grossa. Neanche la placenta di cavallo (!) ha creato i miracoli sperati. Chissà con quel cambio in più come sarebbe andata: magari, invece di mettere un Sosa evanescente, il tecnico dell'Atletico si sarebbe potuto giocare la carta Diego. L'ex Juve sarebbe stato utilissimo ieri a tenere di più la palla in avanti, cosa che non è riuscita benissimo a Villa e Adrian Lopez. E invece siam qui a celebrare la quinta Champions di Ancelotti.

Diego Simeone, 44 anni, sconfitto con onore nella finale di Champions.

Già, Ancelotti. Quel vecchio volpone che sembrava condannato a passare un anno d'inferno a settembre e che invece si è ritrovato con la decima Champions per il Real. E' la quinta personale: ne aveva vinte due da giocatore e due da allenatore, tutte con il Milan. Sopratutto, il pensiero corre a Mourinho e ai suoi sforzi inutili nel triennio con i blancos: tre semifinali, tutte perse. Ancelotti, invece, vince al primo colpo e Mou sarà diventato The angry one nella serata di ieri.
Ciò nonostante, Ancelotti ha fatto di tutto per perdere la gara. Giocarsi Coentrao invece che Marcelo, senza dover affrontare Arda Turan, è stato un approccio eccessivamente difensivo. Tanto che quando Di Maria - il migliore in campo ieri - ha provato qualche accelerazione, Juanfran ha dimostrato di avere qualche difficoltà nel tenerlo. Khedira non era in condizione, ma il cambio era obbligato vista la squalifica di Xabi Alonso. A posteriori, anche l'idea di giocarsi un 4-3-3 senza riferimenti centrali o inserimenti è stata difettosa. Quando poi Ancelotti ha rischiato tutto con l'ingresso di Isco e Marcelo per Khedira e Coentrao, il Real ha cominciato a spingere più efficacemente.
Il gol di Ramos ha cambiato la situazione. Non solo ha rimesso i blancos in gara, ma ha permesso loro - con quello schieramento e quella situazione psicologica - di creare diverse occasioni per la vittoria. L'Atletico ha resistito bene nel primo tempo supplementare, poi Bale ha trovato la chance decisiva in una serata pessima. Il gallese è forse stato uno dei peggiori di quelli davanti (anche più di Benzema, sostituito da Morata), ma al momento giusto c'era. Male anche Casillas, che sul gol ha fatto quello che sconsigliano persino a tennis: stare a metà del guado.
Una volta che l'ex Tottenham ha segnato il gol del 2-1, la gara è virtualmente finita lì. Un Marcelo in grande serata ha siglato il terzo gol - guardate l'azione: non lo marca nessuno - e ha messo il chiodo sulla bara dell'Atletico. Negli ultimi minuti, il rigore concesso al Real c'era, ma forse sarebbe stato meglio evitare: che senso ha concederlo al 120' di una finale già chiusa? Bah. Comunque Ronaldo l'ha trasformato e ha voluto ricordare che c'era pure lui in finale. Già, perché CR7 è stato il grande assente dell'ultimo atto al Da Luz di Lisbona. E ha confermato come è inutile segnare 16 reti in una competizione importante come la Champions se poi in finale sparisci. Complimenti anche a Florentino Perez, presidente del Real: ha speso l'equivalente del Pil di un paese industrializzato per vincere la decima dopo dodici anni dall'ultimo trionfo a Glasgow. Degno di un grande pianificatore.
E' finita comunque nella maniera giusta: nonostante una serata di certo non esaltante, il Real è stato superiore all'Atletico per occasioni da gol e possesso palla. Ha sprecato tanto, ma c'ha sempre provato e non ha mai mollato, nemmeno al 93' quando la coppa sembrava ormai nelle mani dei colchoneros. Ora Ancelotti e Simeone si re-incontreranno nella Supercoppa Spagnola di agosto: se Carletto rimarrà sicuramente a Madrid, vedremo quale sarà il futuro del tecnico argentino. Intanto, a Madrid è arrivata la decima: tanta sofferenza, ma ne è valsa la pena.

Carlo Ancelotti, 54 anni, ieri ha vinto la sua quinta Champions.

21.5.14

L'intramontabile.

Si può essere leggende per il tuo club per venticinque anni, distribuiti in quattro decenni? Si può essere una bandiera, nonostante un breve momento di debolezza? Si può attraversare così tanti anni e passare dal giocare contro l'Ajax di De Boer difensore a quello di De Boer tecnico? Si può. Si può se ti chiami Sander Boschker: il 43enne portiere del Twente ha disputato quest'anno l'ultima stagione da professionista e ieri ha chiuso la sua carriera con una gara d'addio, disputata proprio tra il Twente e le vecchie glorie del club.


Se guardiamo alla carriera del portiere, possiamo dire che l'onore non si riferisca necessariamente ai titoli (anche se Boschker si è tolto le sue soddisfazioni), bensì l'ha guadagnato grazie alla lunghissima militanza con il Twente, squadra di Enschede che gioca nell'Eredivisie. Arrivò nelle giovanili del club nel 1986: all'epoca in Italia ancora doveva nascere il grande Milan degli olandesi e Maradona aveva appena vinto il primo scudetto e il Mondiale in Messico. Sembra passata un'eternità: i primi anni di Boschker sono stati da portiere di riserva, con l'esordio in campionato nel novembre 1989. I galloni da titolare arrivarono solo nel 1993-94 e l'unica soddisfazione in quegli anni giunse con la vittoria nella coppa nazionale: Boschker fu fondamentale sia in semifinale con il Vitesse, che in finale contro il PSV. Entrambe le gare finirono ai rigori e sopratutto nell'ultimo atto Boschker ne uscì da eroe, parando tre rigori consecutivi e regalando la seconda coppa nella storia del Twente.
Poi, nel 2003, l'improvviso addio: il contratto con il club scade e Boschker saluta tutti, andandosene all'Ajax. Il portiere ha 33 anni e si è fatto un certo nome in Olanda, ma finisce per far da riserva sia a Bogdan Lobont che a Maarten Stekelenburg. Vince campionato e coppa nazionale, ma non mette il piede in campo nemmeno una volta in tutta la stagione. A quel punto, è inevitabile la rescissione con l'Ajax. E indovinate dove torna Boschker? Già, al Twente, che lo aspetta a braccia aperte per riaccoglierlo. Non solo il club di Enschede riprende il portiere, ma lo fa anche capitano della squadra. Le prestazioni dell'estremo difensore sono talmente buone che Boschker viene inserito nella lista dei pre-convocati per l'Europeo 2008, sebbene non passi il taglio finale del C.T. van Basten.

Insomma, il vino diventa più buono man mano che invecchia. Lo stesso ragionamento vale per Boschker, che ha saputo togliersi le più grandi soddisfazioni tra il 2010 e il 2011. Intanto, nel 2010, il Twente vince l'Eredivisie e il portiere gioca tutte le partite di quell'esaltante stagione. Anzi, è l'annata con più presenze stagionali tra campionato, coppa ed Europa League nella carriera dell'estremo difensore (sono 47 in totale). A maggio di quell'anno, tra la sorpresa di molti, Boschker fa l'esordio nella nazionale olandese all'età di 39 anni nell'amichevole contro il Ghana, battendo insieme due record: è l'esordiente e il giocatore più vecchio che abbia mai giocato con la maglia dell'Olanda nella storia. Quando si tratta di scegliere i 23 per il Sudafrica, il C.T. van Marwijk decide di portarsi dietro l'esperienza di Boschker: il capitano del Twente, seppur da panchinaro, sfiorò persino il trionfo al Mondiale con gli orange.
Poi è arrivata anche la vittoria in coppa d'Olanda nel 2011, la seconda della sua carriera dopo aver battuto l'Ajax per 3-2 ai supplementari. Tuttavia, dopo quel Mondiale in Sudafrica, il ruolo di Boschker nel club si è ridimensionato: ha avuto modo di giocare in Champions League, ma tutto sommato il ruolo dell'esperto portiere si è ridotto, facendo da chioccia al promettente Mihaylov (che abbiamo visto poco quest'anno all'Hellas). Poi gli infortuni ai polpacci lo hanno limitato ulteriormente, tanto che quest'anno Boschker ha chiuso senza neanche una presenza in campo.
Tuttavia, l'estremo difensore si lascia alle spalle 562 partite in Eredivisie, tutte con la maglia del Twente. Che diventano 696 contando anche le gare disputate nelle coppe. Ben 25 anni, trascorsi (quasi) sempre con la stessa maglia. Un amore sconfinato quello tra il portiere e i suoi tifosi, tanto che gli è stata dedicata una statua all'ingresso dello stadio. Rispetto e stima reciproca che il portiere si è conquistato anche tra i suoi compagni, che hanno deciso di dedicargli un video per la sua ultima uscita: in esso si trovano i ringraziamenti, ma anche alcune parodie che, seppur in olandese, possono esser comprese benissimo. Ieri l'addio, sul futuro chissà: intanto l'intramontabile Boschker ha messo la parola fine a una leggendaria carriera.

Sander Boschker, 43 anni, ieri ha salutato il Twente dopo 25 anni di carriera.

15.5.14

Béla vive.

Quando due tradizioni si incontrano, è difficile che vengano sfatate. Tradizione numero uno: il Siviglia aveva un 100% di successo nelle finali dell'ex Coppa UEFA. Tradizione numero due: Béla Guttmann, il manager ungherese vincitore di due Coppe dei Campioni con il Benfica negli anni '60, andando via nel 1962 profetizzò il futuro delle aquile portoghesi. «Non vincerete mai più in Europa», disse l'allenatore. La finale di Europa League allora si trasforma in un'equazione e il Siviglia vince ai calci di rigore.

La statua di Béla Guttmann al di fuori del Da Luz, lo stadio del Benfica.

Per il Benfica era l'occasione di riscattare la beffa subita nella finale di Europa League dell'anno scorso, quando il colpo di testa di Ivanovic regalò al Chelsea la coppa nell'injury time dell'ultimo atto di Amsterdam. Fu una delle tre beffe subite dal Benfica nel 2012-13, che riuscì a perdere il campionato alla penultima giornata e anche la coppa nazionale. Non è cambiato quasi nulla: Jorge Jesus è rimasto al suo posto, mentre la squadra ha fatto qualche movimento di mercato. Perso Matic a gennaio, il club ha acquistato Djuricic e Markovic. Il tutto con un anno in più di esperienza, che ha portato la squadra a crescere ancora. Ci si aspettava che i portoghesi andassero avanti in Champions: invece sono usciti nel girone per mano dell'Olympiakos e hanno fatto un ottimo percorso in Europa League, eliminando Tottenham e Juventus.
Ieri sera mancavano per squalifica Enzo Perez, Lazar Markovic ed Eduardo Salvio; ciò nonostante, sembrava lampante la superiorità della squadra di Lisbona. Eppure la partita è stata brutta nel primo tempo, quando il Benfica è sembrato timoroso e come sulle gambe. Quando le squadre si sono allungate nella ripresa, i portoghesi hanno avuto numerose occasioni, ma hanno avuto la colpa di non chiuderla prima. Del resto, quando ci sono due salvataggi sulla linea, un rigore non dato e un po' di imprecisione negli ultimi 25 metri, capisci che non è giornata. E' mancato sopratutto l'uomo risolutore davanti: malino Rodrigo, malissimo Lima (almeno ha segnato il rigore nella lotteria finale), Cardozo invisibile finché non ha sbagliato dal dischetto. Bene invece Maxi Pereira e Oblak: ragionando a mente fredda, forse le assenze di tre titolari hanno pesato. Anche perché Sulejmani, che aveva iniziato la finale dal 1', è dovuto uscire alla mezz'ora dopo un dolore alla spalla.
Per il Benfica è l'ottava finale europea persa dal 1962, anno dell'ultimo trionfo: poi sono arrivate tre sconfitte in Coppa dei Campioni e tre in Coppa UEFA/Europa League. Insomma, Jorge Jesus non ci dormirà la notte: possiamo paragonarlo all'Hector Cuper che arrivò a due finali di Champions con il Valencia all'alba degli anni 2000 e non riuscì a portare a casa un trofeo. Per altro, c'è un ultimo dato a suggello della beffa: il Benfica non ha mai perso in questa Europa League. Tuttavia, ai rigori è finita in un'altra maniera.


Diverso lo scenario per il Siviglia, arrivato come sfavorito a questa finale. E non poteva essere altrimenti, vista la maggior forza ed esperienza degli avversari. A differenza delle due Coppe UEFA vinte nel biennio 2006-2007, gli andalusi arrivavano all'ultimo atto di Torino come la squadra già battuta. Ma nessuno ha fatto i conti con la giusta fortuna che stava dalla parte della squadra di Unai Emery: gli spagnoli hanno giocato una gara molto ordinata nella prima frazione, risultando la squadra migliore (anche se hanno rischiato a fine tempo). Poi sono spariti dal campo e solo l'occasione di Bacca nei tempi supplementari ha ricordato che il Siviglia era in campo. Per il resto, tanta difesa e un'ottima partita di Beto, Pareja, Fazio e M'Bia. Diciamo che Unai Emery poteva vincerla prima: la difesa del Benfica non è sembrata granitica, eppure ieri il tecnico degli andalusi se l'è giocata con una difesa a quattro, più M'Bia e Daniel Carriço come mediani nel suo 4-2-3-1. Insomma, praticamente altri due - sopratutto il portoghese - che hanno un passato in difesa, più Rakitić spostato nella posizione di trequartista. La carta Marin è durata giusto mezz'ora, mentre Gameiro è entrato solo al 105' (anche se poi ha segnato il rigore decisivo).
E pensare che questa coppa il Siviglia non avrebbe neanche dovuto giocarla: l'anno scorso il club biancorosso arrivò nono in Liga, ma le sanzioni amministrative dell'Uefa nei confronti di Malaga e Rayo Vallecano esclusero queste due squadre dalla qualificazione all'Europa League. Da lì la lunga cavalcata, iniziata in una serata d'agosto contro il Mladost Podgorica e conclusasi ieri sera a Torino, dopo 19 gare e due lotterie dei calci di rigore. Va detto che il Siviglia ha mostrato una debolezza, quella di non mantenere il controllo della gara o del turno di qualificazione per la sua intera durata. Esempi? Contro il Betis, c'è stato il rischio di uscire dopo il 2-0 dell'andata; stessa situazione nei quarti contro il Porto. Infine, il Valencia aveva un piede e mezzo in finale di Europa League prima che la capocciata di M'Bia portasse gli andalusi a Torino. Un concetto ribadito anche stasera, con il Siviglia scomparso dal campo dopo il primo tempo.
Una dedica per questa coppa va anche ad Antonio Puerta, morto nell'agosto 2007 e che faceva parte di quello squadrone che vinse per due volte questa competizione. Se non fosse scomparso, sarebbe entrato nel ciclo di vittorie della Spagna. E forse avrebbe alzato questa coppa ieri sera. A distanza di quasi sette anni dalla sua scomparsa, pochi erano coloro che erano rimasti di quell'epoca e che potevano ricordare il compagno: Javi Varas, Federico Fazio, José Antonio Reyes. Ma nessuno si è dimenticato di lui in curva. Insomma, è stato un tuffo nel passato. Già, quel passato che invece continua a inseguire il Benfica: Guttmann sarà pure morto, ma la sua maledizione vive ancora.

Il Siviglia alza la sua terza Europa League in meno di un decennio.

12.5.14

UNDER THE SPOTLIGHT: Bernard

Buongiorno a tutti e benvenuti a un altro numero di "Under The Spotlight", la rubrica che ci fa scoprire i migliori talenti in giro per il mondo. Oggi ci spostiamo in Ucraina, nella squadra più forte del paese, che però nasconde un talento promettente, ma forse ancora acerbo per il calcio europeo. Arrivato dal Brasile, quest'anno ha giocato ma non è stato protagonista. Tuttavia, il futuro è dalla sua parte: sto parlando di Bernard, trequartista dello Shakhtar Donetsk e della nazionale brasiliana.

SCHEDA
Nome e cognome: Bernard Anício Caldeira Duarte
Data di nascita: 8 settembre 1992 (età: 21 anni)
Altezza: 1.64 m
Ruolo: Ala, seconda punta
Club: Shakhtar Donetsk (2013-?)



STORIA
Nato nel 1992 a Belo Horizonte, Bernard cresce nelle giovanili dell'Atlético Mineiro, la squadra della città. Il giovane raggiunse O Galo nel 2006, ma venne rilasciato due volte dal club perché ritenuto troppo basso per giocare a calcio a certi livelli. Nel 2010, quando ancora non ha esordito da professionista, viene prestato per qualche mese al Democrata SL, squadra che non gioca nel campionato mineiro e che era formata completamente da giocatori delle giovanili dell'Atlético Mineiro. Pochi mesi e poi il ritorno alla base. Un ritorno non proprio scontato: a inizio 2011, l'Al-Ahli fece un'offerta di quattro milioni per l'allora sconosciuto Bernard. Kalil, presidente del Galo, rifiutò e Bernard debuttò in squadra nel marzo 2011. Un debutto particolare: vista la moria tra squalifiche e infortuni, il tecnico di allora - Dorival Júnior - lo schierò da terzino destro. Poi il ritorno a una posizione più consona e diverse presenze nel suo primo anno da pro (seppur gli manchi ancora il primo gol).
La storia cambia quando a guidare l'Atlético Mineiro giunge Cuca, l'artefice del miracolo del Galo in Copa Libertadores l'anno passato. Arriva un'altra offerta per Bernard, stavolta dalla Russia, ma il club rifiuta anche i sette milioni di euro messi sul tavolo dallo Spartak Mosca. Così il giovane fantasista rimane nei ranghi dell'Atlético e trova molto più spaizo, nonché i primi gol con la maglia della squadra della sua città. Con Ronaldinho, Diego Tardelli e Jô, l'Atlético Mineiro vince regolarmente il campionato statale e poi compie l'impresa in Copa Libertadores nel 2013: il Galo vince il trofeo ai rigori contro l'Olimpia di Asuncion e Bernard è uno degli undici titolari quella sera.
Comunque, ormai il ragazzo non si può più trattenere in Brasile. Alla fine, il presidente dell'Atlético molla la presa e accetta un'offerta da 25 milioni di euro del ricchissimo Shakhtar Donetsk di Lucescu. In realtà, il padre del ragazzo confiderà come Bernard sperava di andare al Porto, ma Kalil ha detto come il club ucraino sia stato l'unico a fare un'offerta. In questo primo anno d'Europa - tra la Premier League ucraina e la Champions League - Lucescu ha dosato le presenze del giovane brasiliano, permettendogli di abituarsi a un calcio più duro e meno spettacolare. Inoltre, non è facile inserirsi in un gruppo comunque solido da diversi anni. Questo primo anno di apprendistato potrebbe esser utilissimo per Bernard, a meno che non lasci l'Ucraina per le note vicende interne. La rivoluzione spaventa il giocatore, che ha già il passaporto in mano nel caso le cose degenerassero in violenza pura.

CARATTERISTICHE TECNICHE
Bernard sprigiona un'incredibile rapidità di gambe e di pensiero, lavorando sul lato mancino del campo, dal quale spesso rientra per accentrarsi e poi giocare la palla. In teoria è possibile disporlo su qualunque porzione della trequarti, ma ha una sorta di predilezione per la zona sinistra del terreno. Capace di giocare da seconda punta, deve rafforzare il suo fisico, perché in Brasile non marcano certo come fanno in Europa. Detto questo, sembra essere il tipico giocatore da assist più che da gol: se saprà lavorare su questo, sarà utile per creare tante occasioni da rete.

STATISTICHE
2010 - Democrata SL: 16 presenze, 14 reti
2011 - Atlético Mineiro: 28 presenze, 0 reti
2012 - Atlético Mineiro: 47 presenze, 15 reti
2013 - Atlético Mineiro: 25 presenze, 7 reti
2013/2014 - Shakhtar Donetsk (in corso): 27 presenze, 3 reti

NAZIONALE
Qualche giorno fa Scolari l'ha messo nella lista dei 23 brasiliani che affronteranno l'impresa più grande: vincere il Mondiale nell'edizione casalinga. Tuttavia, il giovane fantasista non era nuovo alle chiamate del C.T. verdeoro: Bernard era già stato tra i 23 convocati per la Confederations Cup quando giocava ancora nell'Atlético Mineiro. Nessuna trafila nelle squadre giovanili del Brasile, anzi fu Mano Menezes a chiamarlo e farlo esordire per la prima volta nella nazionale maggiore nel novembre 2012. Certo, per lui non sarà facile giocare da titolare con il Brasile: occupa la stessa posizione di Neymar nel 4-2-3-1 di Scolari...

LA SQUADRA PER LUI
Qualcuno dirà: dov'è l'occasione in un giocatore così giovane e che è stato pagato così tanto dal suo nuovo club, per altro ricchissimo? Semplice: lo Shakhtar non rinuncia mai a una buona offerta. E sopratutto, purtroppo, la situazione in Ucraina rimane difficile. Già una volta Bernard s'è lasciato scappare di esser pronto a fuggire nel caso la situazione peggiorasse. Chissà se rifiuterebbe un'offerta dall'estero, magari dal Porto che il brasiliano ha già detto di gradire molto. Una cosa è certa: è materiale da futuro assicurato. Vedremo quale sarà, se in Ucraina o altrove.

10.5.14

Tra feste e rivincite.

In Francia si festeggia: è tempo di fine stagione e ognuno ha avuto il suo momento di gloria. Il Paris Saint-Germain festeggia l'accoppiata scudetto-Coppa di Lega, il Monaco l'ingresso in Champions, il Guingamp la coppa nazionale e l'approdo in Europa League. E in Ligue 2? Ci sono due storie da raccontare, di ritorni alla massima serie ormai certi (o quasi): il Metz ha stravinto il campionato e centrato la sua seconda promozione consecutiva, mentre il Lens è a un punto da quello che sarebbe il traguardo della Ligue 1.

Albert Cartier, 53 anni, allenatore e bandiera del Metz, tornato in Ligue 1.

Partiamo dai campioni e dai fatti certi: per il Metz è stata una grandissima stagione. I Grenats hanno potuto festeggiare con largo anticipo sia la promozione che il titolo, arrivati rispettivamente con quattro e tre giornate d'anticipo. Del resto, il destino di questa Ligue 2 era segnato, visto che il Metz è stato capace di prendere la guida del campionato alla 12° giornata e non mollarla fino alla fine. Tuttavia, negli ultimi anni il club ha attraversato un periodo di poche luci e molte ombre: tre retrocessioni in seconda divisione tra il 2002 e il 2008, nonostante un parco giocatori di valore. Poi le cose sono andate anche peggio nel 2012, quando i granata sbagliano qualunque mossa possibile e son passati dallo sfiorare la promozione a retrocedere in Championnat National (terza divisione) a fine anno. Alcune cessioni, gli infortuni e un rapporto difficile di alcuni ragazzi con il pubblico hanno complicato il quadro e reso la discesa inevitabile: è la prima volta che il club, nella sua storia, scende così in basso.
E pensare che il passato del Metz - non quello recente - parla di una società capace di regalare diversi buoni giocatori al mondo del calcio. La lista è infinita e spazia dai grandi talenti a giocatori sconosciuti che si facevano conoscere nello stadio municipale di Saint-Symphorien. Tanti i ragazzi africani che si sono fatti strada nel Metz: Adebayor, Rigobert Song, il grande Jacques Songo'o, nonché Papiss Demba Cissé. Poi ci sono gli esperti Mondragon, Saha, Letizi. In più gli oggetti misteriosi Onyewu e Blanchard (poi venduto alla Juve per molti miliardi) e il passaggio annuale di Ribery. Ma sopratutto il vivaio del Metz ha dato i natali calcistici  a due dei maggiori talenti degli ultimi vent'anni: Robert Pirés e Miralem Pjanic. Solo per questo ci sarebbe da ringraziarli.
Poi è arrivato il miracolo della risalita dalle ceneri e l'artefice di tutto questo è un uomo discreto, in grado di ricollocare il club dove forse meritava: sto parlando di Albert Cartier. Ex difensore centrale del Metz, aveva allenato il club per un biennio all'inizio degli anni 2000, dopo aver fatto da assistente per cinque anni nel periodo immediato al ritiro. Nonostante 15 anni consecutivi al Metz tra campo e panchina, Cartier ha lasciato il club per girare l'Europa: Belgio, categorie inferiori in patria e anche un salto in Grecia. Poi il ritorno a Metz nel 2012, con i granata in terza divisione. Cartier mette insieme le fila e può contare su un pubblico fedele, che batterà i record di presenza della categoria: con questi ingredienti, il club torna in Ligue 2 nel giro di un anno, seppur finisca secondo dietro al Créteil. In questa stagione, sette vittorie di fila nel girone d'andata hanno assicurato al Metz lo sprint di cui aveva bisogno: il 26 aprile scorso, sul campo di un'altra nobile decaduta come l'Auxerre, è arrivata la meritata promozione. Sarà ritorno in Ligue 1 dopo sei anni.


Dovrà soffrire un altro po', invece, il Lens, che ieri ha buttato un match-point clamoroso in casa contro il Brest: la sconfitta per 1-0 e i soli due punti di vantaggio sul Nancy non regalano una completa tranquillità. Tuttavia, la differenza reti è a favore dei giallorossi, che nell'ultimo turno affronteranno l'ultimo e ormai retrocesso CA Bastia in trasferta. Dire che è fatta sarebbe sbagliato, ma le possibilità di ritornare in massima serie ci sono tutte. Il Lens non è più tra le superpotenze del calcio francese da un po': tre anni fa ha subito la retrocessione in Ligue 2, mentre l'ultima volta che i giallorossi si sono giocati il campionato è stato nel 2002, quando persero la vittoria della Ligue 1 all'ultima giornata contro l'Olympique Lione. Se per l'OL fu l'inizio di un ciclo di vittorie, per il Lens è stato l'inizio della discesa: qualche partecipazione europea, poi due retrocessioni, l'ultima nel 2011. Da lì, la risalita è sembrata difficile.
Se arrivasse la promozione, sarebbe una grandissima rivincita sopratutto per un uomo: Antoine Kombouaré. Forse a molti questo nome non dirà nulla e allora tocca andare indietro con la memoria con un paio di anni. Vi ricordate quando il PSG venne comprato da qatarioti? Ecco, non ci sono stati subito Thiago Silva, Cavani e Ibrahimovic a vincere tutto. Anzi, il primo anno il PSG perse il titolo contro la favola Montpellier, nonostante Ancelotti fosse subentrato ad anno in corso. E chi era l'allenatore del PSG a inizio stagione? Kombouaré. Già giocatore dei parigini, l'ex difensore era stato l'allenatore della squadra riserve per cinque anni, prima di farsi un nome con Strasburgo e Valenciennes. Nel 2009, Kombouaré venne richiamato dal PSG: il tecnico venne poi esonerato a dicembre 2011, quando il club era sì uscito dall'Europa League e dalla coppa di Lega, ma era anche primo in Ligue 1. Alla fine, il PSG arriverà secondo e sconfitto; Kombouaré, intanto, si è fatto un anno in Arabia Saudita, prima di tornare su una panchina francese in questa stagione. Il Lens ora attende un'altra promozione dal tecnico, che ha già compiuto una risalita quando allenava il Valenciennes nove anni fa.
Viene quasi da tornare con la mente alla stagione 1997-98, quando il Lens vinse il suo ultimo campionato nella storia e il Metz stupì tutti, giungendo secondo alle spalle dei giallorossi. Allora il Lens batté il Metz solo per la differenza reti, visto che i due club erano giunti in prima posizione a pari punti. Da lì non sono arrivate molte altre soddisfazioni per le due compagini, con il Lens che vinse la coppa nazionale l'anno successivo. Ora il Metz festeggia, il Lens deve ancora attendere: la Ligue 1 vedrà entrambe ai nastri di partenza l'anno prossimo?

Antoine Kombouaré, 50 anni, spera di festeggiare la promozione con il suo Lens.

6.5.14

Dalle barbabietole al Brasile.

Si dice sempre: il lavoro paga. E per qualcuno quest'assunto non ha funzionato nella storia del calcio. Se proprio volessi portare un esempio, eccovelo qua: minuto 92 di Swansea-Southampton, squadre ormai salve e fuori dalla zona pericolo. Ormai la gara volge al termine, ma Rickie Lambert vede ancora una speranza d'errore nel retropassaggio di Ashley Williams, capitano e difensore dei gallesi. Il centrale scavalca il suo portiere Vorm e Lambert deposita dentro la rete: 1-0 e Southampton ottavo.

Lambert ancora decisivo: il suo gol ieri è stato decisivo per vincere sul campo dello Swansea.

E' la stessa grinta e devozione al lavoro che hanno fatto emergere Lambert in questi ultimi anni sul panorama del calcio inglese. Attaccante classe '82, Rickie è partito da lontano per arrivare fino alla Premier League. E pensare che, con il suo peso e la sua struttura fisica, non diresti che è un centravanti dai piedi buoni e dalla visione di gioco ben sviluppata. Cinque anni nelle giovanili del Liverpool, poi comincia per Lambert un giro infinito per l'Inghilterra: Blackpool, Macclesfield Town, Stockport County e Rochdale. Proprio in quest'ultima squadra il suo talento ha modo di esplodere: 22 gol in 46 gare di League Two. A quel punto, il Bristol Rovers lo preleva per appena 300mila euro, forse quelli meglio spesi dai Pirates negli ultimi anni. Dopo un periodo di ambientamento, Lambert segna 29 gol nella sua terza stagione con il Bristol Rovers in League One.
E' il lasciapassare per il paradiso: a quel punto, il Southampton - caduto in terza divisione - lo prende per tornare in alto. Un milione e 200mila euro che saranno vitali per la storia del club. Il Soton manca persino i play-off nella prima stagione, nonostante 30 gol di Lambert. Va meglio nel 2010-11, quando arriva la promozione dei Saints, che vincono la League One. Rickie segna 21 gol ed è ancora una volta nella top 11 della lega, ma non gli basta: l'anno successivo riesce a stupire tutti, un'altra volta. Alla sua prima stagione in Championship della sua carriera, Lambert realizza 27 reti e vince una caterva di premi: giocatore dell'anno della lega, del Southampton, capocannoniere e ancora nella top 11 del campionato. Sopratutto, le sue reti e i suoi infallibili rigori valgono la seconda promozione consecutiva per il Southampton, che torna in Premier League dopo molti anni.
Non contento, Lambert ha voglia di crescere ancora. Alla prima giornata della Premier League 2012-13, l'attaccante segna sul campo del Manchester City e si unisce al prestigioso e ristretto club di coloro che hanno segnato almeno un gol in ognuna delle quattro divisioni professionistiche inglesi (alla Dario Hubner, tanto per capirci). Non solo: Lambert ha impallinato molte delle grandi della Premier. Il numero 7 dei Saints è andato a segno contro le due squadre di Manchester, Newcastle, Chelsea (sia all'andata che al ritorno), Liverpool. A fine anno il conto è di 15 gol e Lambert è nuovamente il capocannoniere della squadra. Reputazione che ha confermato quest'anno, dove il conto delle marcature è fermo a 12, ma ci sono anche 11 assist, vista la particolare disposizione del Southampton di Pochettino: Rodriguez (o Osvaldo, finché è stato coi Saints), Lambert e Lallana.


E' la stessa grinta che probabilmente lo porterà a coronrare un traguardo meritato per la sua carriera: la convocazione al Mondiale 2014. Il Southampton è un'ottima squadra (qualche tempo fa vi avevo parlato dei suoi gioielli) e i suoi giocatori rappresentano una colonna della nazionale dei Tre Leoni. Tra i convocati della squadra di Hogdson, ci sarà forse anche Rickie Lambert, su cui il C.T. ha sempre un occhio di riguardo. Con l'infortunio di Jay Rodriguez (compagno di squadra e d'attacco di Lambert) e un'Inghilterra non stellare, le probabilità di Lambert aumentano. Proprio lui che in nazionale ha già esordito e che ha anche timbrato nelle qualificazioni al Mondiale. Nel solito modo speciale: dopo 43 secondi dal suo ingresso, al primo pallone toccato, l'attaccante del Southampton segnò di testa il 3-2 finale contro la Scozia. Poi si è ripetuto qualche giorno dopo nella goleada alla Moldavia.
Inoltre, c'è un curioso record che Lambert detiene tutt'oggi: da quando è arrivato a Southampton, ha il 100% di realizzazioni su tiro dal dischetto. Non ha una tecnica particolare per battere i rigori, ma è dannatamente preciso: i penalties realizzati per i Saints sono 34. E chissà quanto ancora potrà andare avanti questo tipo di record. Anche perché il contratto del buon Rickie scade nel 2016 e il club ha dimostrato di esser pronto per galleggiare in Premier League: quest'anno sta per arrivare l'ottavo posto alle spalle del Manchester United. Non male per chi tre anni fa giocava in terza divisione.
Insomma, Rickie è pronto per il Brasile. Doveva dimostrare di esser pronto per la Premier League e al primo anno ha segnato tanti gol. Doveva dimostrarsi solido e ha confermato nel secondo anno di valere anche di più: meno gol, ma tanti assist, a dimostrazione di un giocatore completo. Forse il tipo di attaccante che l'Inghilterra ha già in Rooney, ma che necessita un adeguato vice. E' l'uomo delle prime volte, dei record unici. Ora è pronto a firmarne un altro: la sua prima Coppa del Mondo. Chi l'avrebbe mai detto un decennio fa? Quando il Blackpool lo lasciò libero, Lambert inizio a lavorare per una ditta che produceva barbabietole: quattro mesi, poi la chiamata del Macclesfield Town. Son passati 13 anni: ora i campi brasiliani lo aspettano.

Rickie Lambert, 32 anni, è pronto al suo primo Mondiale con l'Inghilterra.

2.5.14

Beppe IV di Palermo.

Sì, lo so. Effettivamente non possono ancora festeggiare, ma il lieto evento potrebbe arrivare già domani in quel di Novara: il Palermo non può ancora dirsi tornato in A, ma il traguardo è a un passo. I sedici punti di vantaggio sull'Empoli a sei gare dalla fine sono un margine ragionevole per considerare i siciliani nuovamente parte di quel grande circo che è la Serie A. E il merito va sopratutto a un uomo: Giuseppe Iachini, il mago delle promozioni dalla B alla massima serie.

Rino Gattuso, 36 anni, e Maurizio Zamparini, 72 anni: il loro idillio è durato appena sei giornate.

Il tecnico di Ascoli Piceno sta per festeggiare la quarta promozione dalla cadetteria negli ultimi sei anni: manca la matematica, ma la logica dice che il Palermo cavalca da leader verso la Serie A da almeno un mese e mezzo. Per il mister rosanero sarebbe la seconda vittoria del campionato da primo in classifica, dopo quella conquistata con il Chievo Verona nel 2008. Le altre due promozioni sono arrivate nell'appendice dei play-off, con Brescia (2010) e Sampdoria (2012). Iachini è anche l'unico allenatore - almeno finora - ad aver portato una squadra che non fosse la terza in classifica a vincere i play-off di Serie B: è successo con i blucerchiati, che arrivarono sesti in campionato e poi batterono Sassuolo e Varese per tornare in A.
Non è stata la sua impresa più difficile, ma certamente va reso merito a Iachini per il traguardo che sta portando a compimento. Ex centrocampista con una carriera sopratutto in cadetteria, Iachini divenne allenatore dalla stagione 2001-02, quando guidò il Venezia per poche gare senza patentino. Una volta ottenuto, ha girato per l'Italia sopratutto in B: Cesena, Piacenza per tre anni, poi il grande salto con il Chievo Verona. Infine, Brescia, Sampdoria, sei mesi a Siena e ora Palermo. E pensare che i rosanero speravano di vincere tutto con Rino Gattuso. Zamparini aveva infatti scelto l'ex campione del Mondo per guidare il club siciliano alla promozione in A: dopo una retrocessione rovinosa (di cui vi avevo parlato proprio un anno fa), il patron del Palermo pensò di aver azzeccato la mossa della vita. Gattuso, nel frattempo, aveva chiuso la sua carriera in Svizzera al Sion, dove aveva fatto un minimo di gavetta da giocatore-allenatore.
Sull'ex Milan, il presidente si era espresso con fermezza: «E' una certezza, non lo esonererò mai». Salvo poi ricredersi dopo i primi due mesi di gestione: il Palermo esce dalla Coppa Italia e in campionato non decolla. Anzi stenta per poi cadere in malo modo, quando i rosanero perdono sia a La Spezia che a Bari. A quel punto, un Zamparini senza vergogna dirà: «Errore mio». Come se delle scuse potessero cancellare la sua reputazione: Gattuso è il ventesimo allenatore cacciato dal presidente rosanero in vent'anni tra Venezia e Palermo. Un vulcanico che non sa tenere la testa a posto. E per uno così solo Beppe Iachini poteva andar bene. Tra l'altro, l'allenatore marchigiano aveva dalla sua anche il fatto di aver militato per un biennio a Palermo nella sua carriera da giocatore. Iachini non cambia il suo copione: prende la squadra, si prende un periodo di ristrutturazione e poi il Palermo comincia a volare. Lo score è impressionante: 68 punti in 30 giornate da tecnico dei siciliani, miglior attacco (a pari merito con il Modena) e miglior difesa della B, più i due derby vinti contro il Trapani. E ora la promozione è a un passo: un successo domani sul campo del Novara basterebbe per guadagnare il ritorno in A e la vittoria nel campionato cadetto con cinque giornate d'anticipo.

Kyle Lafferty, 26 anni: il nord-irlandese è stato un pilastro per il Palermo di Iachini.

Insomma, il Palermo - dopo un 2012-13 difficile - ha potuto guardare al futuro con serenità grazie all'opera del mister rosanero. A breve compirà cinquant'anni (il 7 maggio prossimo), eppure Iachini deve ancora trovare la sua affermazione in Serie A. Il suo futuro - almeno a sentire Zamparini - è lì, con il Palermo, ma l'allenatore deve dimostrare di poter stare nella massima categoria. Le precedenti esperienze non depongono a suo favore, visto che finora Iachini ha avuto già tre chance in A. La prima fu con il Chievo dopo aver vinto il campionato, ma durò appena due mesi per la scelta di affidarsi sopratutto al blocco che aveva dominato la B l'anno prima; poi i clivensi si salveranno con Di Carlo. La seconda fu con il Brescia, condotto anch'esso dalla B alla A: anche in questo caso, Iachini viene esonerato dopo 15 giornate, salvo tornare due mesi dopo, quando la retrocessione non sembra evitabile. La terza è stata con il Siena nello scorso campionato: nonostante la discesa in cadetteria, è stata la migliore esperienza di Iachini in A, visto che i toscani erano ancora in corsa per la salvezza a una giornata dalla fine, sebbene su di loro gravassero sei punti di penalizzazione.
A questo punto viene in mente il paragone con quello che è stato il suo maestro: Walter Novellino. Monzon lo portò in panchina per fargli da vice a Piacenza ed è sempre stato un punto di comparazione per Iachini. Entrambi ormai sono a quattro promozioni dalla B: Novellino le ottenne con Napoli, Venezia, Piacenza e Samp. Ma il tecnico rosanero non ha avuto in A lo stesso successo del buon Walter, che ha salvato il Venezia, ha fatto altrettanto con il Piacenza e ha addirittura raggiunta l'Europa con la Samp. Quello che vorrebbe raggiungere anche Zamparini con Iachini. Già, Zamparini: il proprietario del Palermo ha un buon rapporto con il suo allenatore, visto che lo conosceva da Venezia, dove Zamparini era il patron e Iachini il capitano. Ora bisognerà vedere quanta pazienza il patron siciliano avrà con il suo mister, visto che Zamparini è conosciuto come un "mangia allenatori".
Insomma, il futuro del Palermo gira attorno a questi due nodi: il rendimento di Iachini in A e la pazienza che Zamparini saprà applicare. Si sogna l'Europa, ma bisognerà valutare anche quanto l'attuale parco giocatori sarà in grado di confermarsi. Ci sono alcuni che hanno stupito, come Bolzoni, che Iachini aveva già avuto nei sei mesi di Siena. O come Alen Stevanovic, che si è ripreso dopo un primo periodo di difficoltà con il nuovo tecnico. Come Vázquez, che Iachini ha saputo re-inserire gradualmente in squadra ed è stato importante negli ultimi due mesi. O sopratutto come i due centravanti, il giovane Andrea Belotti e l'ariete Kyle Lafferty: insieme hanno realizzato 19 gol spesso decisivi. In base a quanto il d.t. Perinetti saprà integrare questi protagonisti con i nuovi, i siciliani potranno far bene. E Iachini potrà finalmente affermarsi anche in Serie A. Per ora è Beppe IV di Palermo, in attesa dell'incoronazione definitiva.

Beppe Iachini, 49 anni, vicino alla quarta promozione dalla B alla A della sua carriera.