30.9.16

ROAD TO JAPAN: Haruya Ide

Buongiorno a tutti e benvenuti al nono numero per il 2016 di "Road to Japan", la rubrica che ci consente di scoprire i maggiori talenti del calcio giapponese. Oggi ci spostiamo nella prefettura di Chiba, dove ci sono due situazioni opposte: da una parte il Kashiwa Reysol in J1, dall'altra il JEF United Chiba in J2. Quest'ultimo ha in squadra Haruya Ide, talentino di casa JEF.

SCHEDA
Nome e cognome: Haruya Ide (井出 遥也)
Data di nascita: 25 marzo 1994 (età: 22 anni)
Altezza: 1.70 m
Ruolo: Trequartista, esterno
Club: JEF United Chiba (2011-?)



STORIA
Nato a Kashiwa (nella prefettura di Chiba) nel 1994, Haruya Ide si sposta con la famiglia a Tokyo durante la sua giovinezza. Se la sua nascita avrebbe dovuto piazzarlo nelle giovanili del Kashiwa Reysol, in realtà Ide finirà a giocare per l'altra squadra della città di Chiba, ovvero lo JEF United, da qualche anno finito in seconda divisione.
La sua entrata nel JEF United arriva grazie a un amico di sua sorella che lo incita a entrare in squadra, ma è solo l'inizio: prima l'U-15, poi l'U-18 e infine la prima squadra. Un ingresso arrivata in età precoce, visto che Ide esordisce sotto la guida di Sugao Kambe sul finire della stagione 2011 contro Mito HollyHock, quando il giovane Haruya ha solo 17 anni.
Va detto che la stabilità non è di casa in questo club: il JEF United ha cambiato sette allenatori nelle ultime sei stagioni. Gli unici due a garantire una certa continuità sono Takashi Sekizuka (ex ct dell'U-23 giapponese a Londra 2012) e soprattutto Jun Suzuki, che ha avuto il merito di dare a Ide maggior spazio tra i titolari.
Già, perché la mezzala gioca appena quattro partite nelle prime tre stagioni, poi con l'arrivo di Suzuki il numero di apparizioni schizza a 37 gare (accompagnato dalle prime quattro reti da professionista). In una panorama di assoluta aridità (il JEF è retrocesso da sette anni e difficilmente tornerà in J1 nel 2017), Ide rappresenta l'unica gioia alla Fukuda Denshi Arena.

CARATTERISTICHE TECNICHE
L'evoluzione tattica di Ide è stata interessante: partito da centrocampista centrale, diventato mezzala, poi trasformato in trequartista, quest'anno ha persino giocato da ala nel 4-2-3-1, 3-4-2-1 o 4-4-2. Indifferente l'utilizzo della fascia, perché Ide è apparso sia sul lato mancino che su quello destro sotto la guida di Sekizuka.
Tecnicamente parlando, invece, c'è da esser contenti. Se da una parte bisogna considerare che Ide deve rafforzarsi dal punto di vista fisico (il ragazzo è leggerino per la J2, figuriamoci per il calcio europeo), il giocatore del JEF United ha delle discrete doti.

STATISTICHE
2011 - JEF United Chiba: 2 presenze, 0 reti
2012 - JEF United Chiba: 2 presenze, 0 reti
2013 - JEF United Chiba: 0 presenze, 0 reti
2014 - JEF United Chiba: 37 presenze, 4 reti
2015 - JEF United Chiba: 32 presenze, 6 reti
2016 - JEF United Chiba (in corso): 28 presenze, 3 reti

NAZIONALE
Purtroppo questo è un tasto dolente: in questo momento storico, un talento - promettente, ma grezzo - come Ide non può trovare spazio nel suo ruolo. C'è da sperare che qualcuno - in Europa o nello stesso panorama della J. League - creda in questo ragazzo dotato, che altrimenti non vedrà mai la Nippon Daihyo incastrato nelle difficoltà tecniche (e non) del JEF United.

LA SQUADRA PER LUI
Non so voi, ma a me viene spontaneo il parallelo con Shinji Kagawa: anche il giocatore del Borussia Dortmund era il leader tecnico di una squadra - il Cerezo Osaka - che ha passato diversi anni in J2. Lui è cresciuto in quel contesto, sebbene Kagawa sia riuscito poi con i suoi compagni a riportare il club in J1 prima di partire per la Germania.
Ecco, Ide in questo non sembra riuscire. Perché è troppo giovane, perché non ha la personalità o la tecnica per condurre il JEF alla promozione: poco importa. Ma è sicuramente un giocatore su cui poter lavorare, dalle buone capacità tecniche e molto duttile: il calcio olandese lo aspetta, con tutti i miglioramenti necessari per sfondare.

23.9.16

Dinastia interrotta.

Arjen Robben, Ibrahim Afellay, Memphis Depay. Seppur con fama mondiale discendente, la generazione di ali offensive del PSV ha sempre fatto un buon lavoro: dall'olandese del Bayern all'ex Barcellona, passando per l'attuale giocatore del Manchester United. Nella linea dinastica, l'erede sarebbe dovuto essere Zakaria Labyad. SAREBBE.

Labyad con Depay ai tempi del PSV Eindhoven.

Perché il pallone porta con sé risvolti che non avremmo mai immaginato. Per i Pavoletti (o i Toni, per fare esempi più celebri) che si affermano dopo anni di gavetta e tanto impegno, ci sono i Labyad (o i Mastour, se il tempo mi darà ragione) che invece non si affermano mai, nonostante premesse ben più floride nei loro primi passi sul campo.
Zakaria Labyad non è stato diverso. Classe '93 nato a Utrecht, Labyad milita a livello giovanile nell'USV Elinkwijk, club che gioca oggi in quinta divisione. Nel 2004, a soli 11 anni, il piccolo Zakaria passa al settore giovanile del PSV Eindhoven, che a quei tempi raggiunge una combattuta semifinale di Champions League.
In quegli anni trascorsi nel settore giovanile, qualcosa si intravede: deve essere per forza così, altrimenti non si spiegherebbe un primo contratto firmato nel gennaio 2009, valido fino al giugno 2012. Arriva il momento dell'esordio in prima squadra per una gara di Europa League del febbraio 2010: tre giorni più tardi, anche la prima in Eredivisie.
Il PSV non vince il campionato dal 2008 (e non lo vincerà fino al 2014), ma quella squadra e quel calcio sono l'ideale per far crescere il talento di Labyad. Il tecnico Fred Rutten l'ha lanciato e lo coccolerà per tutto il periodo della sua permanenza: idealmente, i due sono collegati da un filo rosso nell'avventura a Eindhoven.
Quando infatti Rutten si separa dal PSV, anche Labyad si prepara a partire: è l'ennesima pepita del campionato Oranje che lascia il calcio olandese. Ce lo si può permettere: l'anno prima è partito l'ungherese Balázs Dzsudzsák, andato in Russia. E in fondo, il PSV qualche sostituto l'ha coltivato in casa e tramite gli acquisti.
Non per nulla, al posto di Labyad rimarranno Lens, Dries Mertens (preso dall'Utrecht, come Kevin Strootman) e un giovanissimo Memphis Depay, che è solo un anno più giovane di Labyad. Philipp Cocu, all'epoca manager ad interim e oggi allenatore del PSV, dà il suo benestare alla partenza del talento di origini marocchine.
Ad attendere Labyad - dopo 48 presenze e 12 gol in tutte le competizioni con il PSV - c'è lo Sporting Lisbona: un affare a costo zero, visto che l'ala si è svincolata al termine del suo contratto con il club olandese (con tanto di diatriba legale). Per i Leoni di Lisbona sembra un affare, ma in realtà sarà il canto del cigno per entrambe le parti.
Se lo Sporting comincia a soffrire economicamente (e quindi quell'intuizione è l'ultima di un certo rilievo), Labyad non è continuo nella sua avventura in Portogallo. Il rapporto con Jesualdo Ferreira non è straordinario, la squadra va male in Europa League e malissimo in campionato, dove il settimo posto finale è una delusione. E ora?

Cos'è stato di Labyad a Lisbona?

Niente da fare: Lisbona è meglio lasciarla, specie se non giochi una partita nella prima parte del 2013-14. Si torna in Eredivisie, precisamente ad Arnhem, dove il Vitesse lo aspetta in prestito. I 18 mesi trascorsi in giallonero sembrano l'inizio della rinascita: addirittura 35 presenze e dieci reti nel 2014-15 sotto la guida di Peter Bosz.
Intanto a Lisbona lo Sporting si è ripreso: dopo la cura Jardim, è arrivato Jorge Jesus, a cui piacerebbe ripartire dal talento marocchino. Così l'ex tecnico del Benfica lo richiama alla base, convinto di poterlo sfruttare al meglio. E invece arriva una nuova delusione, perché Jesus non lo metterà mai in campo con la prima squadra.
Labyad gioca con le riserve in seconda divisione, dove però non sembra determinante. Neanche sei mesi di prestito al Fulham l'hanno rigenerato; anzi, l'allenatore dei Cottagers Slavisa Jokanovic è stato onesto a maggio 2016: «Nelle ultime settimane non è rientrato nei miei piani. Non si sta nemmeno allenando più con noi».
L'appendice finale di questa corsa a vuoto è stato il mercato estivo: nessuno ha bussato alla porta di Labyad, che alla fine ha optato per la separazione consensuale con lo Sporting, giunta il 31 agosto scorso. La tristezza pervade la sua carriera: anche il suo account Twitter ha avuto tre updates nel 2016 e sembra un talento irrecuperabile, nonché incupito su sé stesso.
Ma com'è stato possibile? Parliamo dello stesso giocatore che ha incantato in Olanda? Solo una questione d'ambiente o non c'è nulla oltre i confini Oranje? Oppure - come dicono in Portogallo - si è goduto un po' troppo la vita notturna di Lisbona? La dinastia è interrotta e chissà se e quando Labyad saprà riprendersi il suo posto nel mondo del calcio.

Zakaria Labyad, 23 anni, è svincolato dopo qualche anno allo Sporting Lisbona.

17.9.16

UNDER THE SPOTLIGHT: Ahmed Khalil

Buongiorno a tutti e benvenuti a un nuovo numero di "Under the Spotlight", la rubrica con la quale scopriamo i talenti sparsi in giro per il mondo. Gli Emirati Arabi Uniti stanno vivendo una nuova giovinezza, con una buona nazionale e tre assi davanti. Uno di essi è stato nominato anche giocatore asiatico dell'anno, Ahmed Khalil, simbolo dell'Al-Ahli.

SCHEDA
Nome e cognome: Ahmed Khalil Sebait Mubarak Al-Junaibi (أحمد خليل‎‎)
Data di nascita: 8 giugno 1991 (età: 25 anni)
Altezza: 1.79 m
Ruolo: Seconda punta, prima punta
Club: Al-Ahli Dubai F.C. (2006-?)



STORIA
Nato a Sharjah (la terza città più popolosa degli Emirati) nel giugno del '91, nel destino di Khalil non poteva che esserci il calcio. Infatti Ahmed è nato in una famiglia di calciatori: il padre ha giocato a calcio in Kuwait, mentre tutti i suoi fratelli hanno poi militato per quella che sarà la squadra della sua carriera, ovvero l'Al-Ahli Club.
A soli otto anni è già nelle giovanili del club e i suoi record di precocità non si fermano qui: al termine della stagione 2006-07, l'allenatore dell'Al-Ahli è il francese Alan Michel. L'Al-Ahli non ha più nulla da chiedere al campionato e così c'è più spazio per Khalil, che ha già esordito in prima squadra alla giovane età di 15 anni.
Proprio nella gara contro contro l'Al-Wahda, Khalil realizza a 16 anni il suo primo gol da professionista: è solo il primo highlight di una carriera che ne regalerà parecchi. La fortuna di Khalil è di crescere accanto a stelle del calcio mondiale: i tanti soldi degli Emirati portano Fabio Cannavaro e Grafite a vestire la maglia dei Farsan (i "cavalieri").
Non solo: Khalil è stato anche allenato da alcuni tecnici prestigiosi negli ultimi anni, come ten Cate, O'Leary e Quique Sánchez Flores. Frequentazioni che hanno portato non solo miglioramenti nel bagaglio tecnico del giocatore, ma anche diversi trofei al club: l'Al-Ahli ha vinto tre titoli nazionali, quattro coppe e altrettante supercoppe degli Emirati.
In realtà, Khalil avrebbe potuto lasciare il paese già nel 2009, a soli 18 anni: in seguito al possibile acquisto del Portsmouth da parte di Sulaiman Al-Fahim, l'affare che avrebbe portato Khalil ai Pompeys era cosa fatta. Poi l'operazione di vendita della società non fu mai portata a termine e l'affare saltò, lasciando Khalil all'Al-Ahli.
Poco male: lui ha vinto il premio di calciatore asiatico dell'anno nel 2015, un'annata in cui ha segnato a ripetizione e portato l'Al-Ahli a un passo dalla vittoria della Champions League asiatica, dove il club di Dubai ha perso nella doppia finale contro il Guangzhou Evergrande. Sotto Cosmin Olăroiu, le cose vanno più che bene. E non solo nei club.

CARATTERISTICHE TECNICHE
Tatticamente il ragazzo ha ampliato il suo arsenale di possibilità: può giocare da prima o da seconda punta, essendo in grado sia di sfruttare gli spazi in transizione che di trovare il giusto posizionamento in area. Khalil sembra preferire più il ruolo da seconda punta (anche per sfruttare un discreto tiro dalla distanza), ma non disdegna l'utilizzo nel ruolo di centravanti.
Tecnicamente stiamo parlando di uno degli assi del calcio asiatico, nonché di un giocatore di cui si è sentito parlar poco per le capacità mostrate. Molto valido su calcio piazzato, Khalil ha comunque bisogno di migliorare dal punto di vista fisico, perché nonostante una corporatura di stazza - 179 centimetri per 85 chili - non è detto che basti per reggere il calcio europeo.

STATISTICHE
2006/07 - Al-Ahli: 4 presenze, 4 gol
2007/08 - Al-Ahli: 18 presenze, 9 gol
2008/09 - Al-Ahli: 13 presenze, 3 gol
2009/10 - Al-Ahli: 27 presenze, 13 gol
2010/11 - Al-Ahli: 21 presenze, 5 gol
2011/12 - Al-Ahli: 26 presenze, 12 gol
2012/13 - Al-Ahli: 27 presenze, 9 gol
2013/14 - Al-Ahli: 32 presenze, 18 gol
2014/15 - Al-Ahli: 40 presenze, 21 gol
2015/16 - Al-Ahli: 25 presenze, 7 gol

NAZIONALE
Il vero ambito di crescita per Khalil è stato la nazionale. Solo a guardare le medie-gol per le varie rappresentative degli Emirati Arabi Uniti c'è da stupirsi: 6 gol in 7 partite con l'U-17, 13 in 15 con l'U-20, 14 reti in altrettante gare con l'U-23 e un "rispettabile" bilancio di 39 gol in 75 presenze con la nazionale maggiore. E ha solo 25 anni.
In particolare, un allenatore l'ha fatto brillare: dall'arrivo di Mahdi Ali sulla panchina della prima squadra, Khalil ha segnato molte reti ed è diventato il capitano della nazionale, anche se la leadership tecnica viene condivisa con Abdulrahman e Mabkhout. Khalil è a -13 dal primato di gol in nazionale, detenuto da Adnan Al Talyani.

LA SQUADRA PER LUI
Al di là del premio di giocatore asiatico del 2015, Khalil ha già dimostrato di esser un profilo interessante alla Coppa d'Asia del gennaio dello scorso anno. Non credo siano necessari altri segnali per dimostrare che Khalil è un prospetto pronto per l'Europa: sarebbe bello vederlo al City tramite pressioni dell'Abu Dhabi Group.

8.9.16

Il tramonto di una leggenda.

A Rio 2016, la più grande sorpresa tra le quattro semifinaliste è certamente l'Honduras, che è stata guidata da quel diavolo di Jorge Luis Pinto, ma ha fatto fuori l'Argentina e raggiunto la semifinale. Questo gruppo di giovani sostituirà i senatori in nazionale dopo l'ultima deludente Gold Cup. E tra di loro, c'è chi ha fatto la storia, come Noel Valladares.

Valladares e l'Honduras, una storia che dura da 16 anni.

In realtà l'ultima gara di Valladares con la nazionale honduregna risale al febbraio di quest'anno, quando è stato convocato dal ct Pinto per la gara contro il Guatemala. Ma a sette mesi di distanza dall'ultima chiamata con il suo Honduras, è ragionevole pensare che la carriera di Valladares in nazionale sia effettivamente conclusa.
L'avventura del portiere è cominciata da Comayagua, poco più su della capitale Tegucigalpa. E pensare che Noel non doveva fare il portiere, ma l'attaccante, il ruolo in cui giocava quando era più piccolo. Una volta entrato nel Real Comayagua, Valladares viene schierato come portiere e trova la chiave di volta per la sua carriera.
L'esordio da professionista è arrivato nel 1997, quando il Motagua lo prende come terzo portiere. Ma la folle vita da calciatore di Valladares prende una piega strana: all'inizio non riesce a sfondare, anzi il suo allenatore - il messicano Alejandro Domínguez - lo schiera persino come attaccante in un match del Clausura 2002-03.
E il risultato è incredibile: Valladares decide la caldissima gara contro l'Olimpia, l'altra super-potenza del calcio honduregno. Un colpo di testa al rallentatore, quanto basta però per sbloccare la gara, che poi si chiuderà sul 2-0 per il Motagua. Valladares segnerà altri due gol come attaccante, ma la sua carriera da arquero ormai è decollata.
C'è però un intermezzo europeo per il portiere del Motagua, che all'improvviso si trasferisce in Croazia. E non in una powerhouse del calcio croato, bensì al Šibenik, squadra della terza divisione nazionale. Alla fine di quell'annata, il club è tornato in seconda divisione, ma anche Valladares ha voglia di tornare da qualche parte: a casa.
Qui però si comprende la grandezza del portiere honduregno, che ha la faccia tosta di tornare a Tegucigalpa, ma dalla parte opposta: nonostante la grande rivalità del Clásico Capitalino glielo dovrebbe sconsigliare, l'estremo difensore firma per l'Olimpia nel 2006. E sono dieci anni che difende la porta dell'altra parte della città.
Con i Leoni ha giocato più di 400 partite, ha vinto molti titoli e ha dimostrato di essere ancora in discreta forma: il numero 16, per esempio, si è concesso il lusso di esser il portiere meno battuto del campionato in diverse occasioni e ha persino parato due rigori nel Clásico Capitalino giusto un anno fa. Segno che la forma non è andata via.

The Best in Concacaf: forse è troppo, ma sicuramente un posto nella storia ce l'ha.

Se la carriera nei club è un po' oscura (non è che le fonti a disposizione siano sconfinate), diversa è stata quella in nazionale. L'Honduras ha schierato Valladares come suo portiere per la prima volta nel giugno 2000: all'epoca l'allenatore della nazionale è Ramón Maradiaga, che ha già allenato Valladares al Motagua, lanciandolo da pro.
Le Olimpiadi di Sydney 2000. La Copa América del 2001, in cui ottiene uno storico terzo posto insieme ai suoi compagni dopo la vittoria ai rigori nella finalina contro l'Uruguay. Tante partecipazioni alla Copa Centroamericana, poi vinta nel 2011. L'unica partecipazione alla Gold Cup dello stesso anno, di cui Valladares è stato miglior portiere.
Già, perché la fortuna di Noel in nazionale è stata altalenante nonostante 16 anni di frequentazione. Poche competizioni ufficiali, anche quando è diventato il titolare dell'Olimpia. A cambiare la sua carriera in nazionale è stato Reynaldo Rueda, un santone che vaga per le Americhe e trasforma le vite di molti calciatori (vedi l'Atlético Nacional nel 2016).
Quando l'Honduras si qualifica per il Mondiale del 2010, Rueda decide che Valladares sarà il titolare in Sudafrica. Una fama che poi il portiere ha saputo trascinare fino al 2014, quando l'Honduras si è riqualificato per la Coppa del Mondo sotto la guida di Luis Fernando Suárez e l'estremo difensore ha difeso i pali della sua nazionale da capitano.
Tuttavia, quell'era per l'Honduras è finita. L'ultima Gold Cup è stata un disastro totale e c'è bisogno di forze fresche. Capitan Amado Guevara - record-man di presenze - si è ritirato ed è assistente di Pinto in nazionale, mentre Bernárdez e Palacios hanno aspettato il Mondiale brasiliano per lasciare. Anche Costly e Bengtson non si vedono più in nazionale.
Valladares ha visto passargli avanti il compagno di squadra Escober, Canales e il giovane Luis López. Persino il figlio di Noel, Manuel - anche lui portiere - è nelle riserve delle Olimpia e potrebbe prima o poi fare il salto in prima squadra. Sarebbe bello che Valladares potesse superare Guevara (è a tre partite di distanza), ma difficilmente accadrà.
Sta cambiando tutto e il tramonto di una leggenda come Valladares segnerà inevitabilmente il movimento honduregno. Si spera che la successiva generazione sappia riportare l'Honduras anche al Mondiale di Russia: non sarà facile, ma i cicli vanno e vengono, i tempi cambiano e neanche i totem resistono in eterno.

Noel Valladares, 3? anni, ancora oggi guardiano dei pali dell'Olimpia.

5.9.16

La musica torna in città.

Nel 2001, ha lasciato Praga per Dortmund. Non è stato un addio, ma un arrivederci. In fondo lo sapeva che ci sarebbe stato un momento nel quale tornare a casa sarebbe stata non solo l'unica soluzione, ma quella ideale. Dopo un Europeo giocato con grande coraggio (e condito ahimè dall'ennesimo infortunio), Tomáš Rosický è tornato allo Sparta Praga.

Rosický ha chiuso a EURO 2016 l'avventura con la Repubblica Ceca.

Inevitabile, forse. Dopo dieci anni con l'Arsenal, coming back è rimasta l'unica opzione possibile. In fondo, però, è stato un peccato: la carriera di Rosický sarebbe potuta rimanere negli annali con un altro colore, invece di quello grigio che ricorda l'incompiutezza. La colpa non è mai stata sua, ma il ceco rimane un grande punto di domanda.
Eppure le premesse erano state di un verde speranza intenso, visto che Rosický esordisce con lo Sparta Praga nel 1998. Dopo due anni, è in nazionale, venendo persino convocato per Euro 2000 alla tenera età di 19 anni. Quando realizza gol persino in Champions (di cui uno contro l'Arsenal a Londra), l'attenzione dei club europei s'innalza.
Ad approfittarne è il Borussia Dortmund, capace di strapparlo allo Sparta Praga per 20 milioni di euro già a gennaio 2001, prima che si chiuda la stagione: è l'acquisto più costoso nella storia della Bundesliga e una cifra-record per il trasferimento di un giocatore ceco. E la sua avventura tedesca parte subito con il piede giusto.
Il BVB vince un'incredibile Bundesliga in rimonta nel 2001-02 e centra la finale - seppur persa - di Coppa UEFA in casa del Feyenoord. Il nome di Rosický comincia a circolare, tanto che il 10 del Dortmund è l'unico a interrompere una striscia di quattro successi nel Pallone d'Oro ceco da parte di Pavel Nedved, suo compagno di nazionale.
Già affiora qualche rimpianto da parte di Rosický: la mancata qualificazione alla Champions con il BVB, Euro 2004 e i primi infortuni alla coscia che anticipano dolori futuri. Nell'estate del 2006, specie dopo un Mondiale deludente per la Repubblica Ceca, ma soddisfacente per lui, è tempo di lasciare il Borussia Dortmund.
Si parla di Atlético Madrid, ma in realtà Rosický firma per l'Arsenal, che ha appena salutato Robert Pirès e ha bisogno di un sostituto. Il ceco non è proprio un giocatore di fascia, ma interpreta il calcio in maniera simile all'ala francese e si prende pure il suo numero 7, che terrà nei successivi dieci anni trascorsi all'Emirates.
Dopo due prime stagioni incoraggianti con la maglia dei Gunners, gli infortuni cominciano a tartassare il talento di Praga. Rosický rimane fuori per tutto il 2008-09, tornando a giocare per Wenger solo nell'annata successiva. Tra il 2009 e il 2012, nonostante qualche ricaduta, Rosický ritrova la continuità e firma ben due nuovi contratti con l'Arsenal.

Tuttavia, il peggio è dietro l'angolo: un serio infortunio al tendine d'Achille - rimediato a Euro 2012 con la sua nazionale - tiene Rosický fuori dalla preparazione dell'Arsenal per il 2012-13. Il problema è che nell'ultimo quadriennio trascorso a Londra solo nel 2013-14 il ceco ha giocato più di 25 partite in tutte le competizioni.
Nonostante un altro rinnovo arrivato nel 2014, Rosický non ha potuto negare l'evidenza, arrivata con tutta la sua forza nel 2015-16: UNA partita giocata in tutta la stagione con l'Arsenal, ovvero il manifesto della sua carriera. Tornato da un infortunio alla gamba, scende in campo contro il Burnley in F.A. Cup e si fa male alla coscia dopo qualche minuto.
A fine stagione, lo stesso Rosický ha deciso di chiudere qui l'avventura con i Gunners, tanto da ricevere la famosa guard of honour da compagni e tifosi, di cui molti vestiti con la sua "7". Un omaggio dovuto a chi è stato in ogni caso un giocatore di grande classe, che senza i suoi infortuni avrebbe potuto ottenere di più dalla sua carriera.
Tuttavia, Rosický ha realizzato due ultimi sogni. Il primo è stato quello di giocare all'Europeo con la sua nazionale: il ct Pavel Vrba l'ha aspettato e poi l'ha portato con sé in Francia. Ho visto Rosický sacrificarsi in copertura, fare il mediano e tentare di far resistere un fortino fragile. Un ritiro ufficiale non c'è stato, ma forse la Cechia ripartirà da altri protagonisti.
Il secondo sogno è stato realizzato tornando allo Sparta Praga, la squadra che l'ha lanciato da ragazzino e con la quale ha firmato un biennale. Le maglie con la "10" di Rosický vanno già a ruba e ora che il Piccolo Mozart è tornato in città per suonare l'ultima melodia, c'è da scommettere che ci sarà da divertirsi.

Tomáš Rosický, 35 anni, ritorna all'ovile dello Sparta Praga.