27.2.15

ROAD TO JAPAN: Gen Shoji

Buongiorno a tutti e benvenuti a un altro numero di "Road to Japan", la rubrica che vi consente di conoscere in maniera più approfondita i migliori talenti del calcio nipponico. Oggi ci spostiamo a Ibaraki, precisamente dai Kashima Antlers, per analizzare un prospetto che era nei 23 del Giappone alla Coppa d'Asia, ma non ha messo piede in campo. Eppure è una colonna della squadra allenata da Toninho Cerezo: parlo di Gen Shoji, difensore degli Antlers.

SCHEDA
Nome e cognome: Gen Shoji (昌子 源)
Data di nascita: 11 dicembre 1992 (età: 22 anni)
Altezza: 1.82 m
Ruolo: Difensore centrale
Club: Kashima Antlers (2011-?)

© Koki Nagahama


STORIA
Nato a Kobe - capitale della prefettura di Hyōgo - nel dicembre del 1992, Shoji comincia a giocare a calcio sin dalle elementari. Originariamente, però, il piccolo Gen giocava in attacco. Addirittura - quando è alle scuole medie - comincia a giocare per il Gamba Osaka, dove conosce Takashi Usami e Kotaro Omori, due che hanno recentemente fatto la storia del club con il triplete nazionale del 2014. Tuttavia, alcuni guai alle ginocchia perseguitano il ragazzo e così per due anni la sua attività calcistica è in stallo.
A Shoji viene quasi voglia di smettere. Effettivamente per un po' non gioca e decide di cambiar scuola, passando alla Yonago North High School. Una scelta che lo riavvicinerà al calcio, ma solo dopo molti ripensamenti. Tutti pensano che Shoji possa diventare un grande attaccante, un ruolo in cui il Giappone ha bisogno di gente nuova. Eppure lui ha ricordato: «Fare l'attaccante non mi piaceva per niente». Così al liceo decidono di re-inventarlo come difensore centrale: mossa che funziona alla perfezione. C'è anche un provino per il Vissel Kobe, ma il club non rimane particolarmente impressionato da Shoji.
Così il giovane lavora sul proprio fisico e cattura l'interesse dei Kashima Antlers, che lo mette sotto contratto insieme a un trio niente male: Gaku Shibasaki, Takahide Umebachi e Shoma Doi. Insieme, essi costituiscono la linfa nuova per la dinastia della squadra di Ibaraki. L'esordio nel 2011 arriva solo in Coppa dell'Imperatore, mentre dal 2012 per Shoji c'è spazio anche in J-League. Jorginho lo prova un po' ovunque: non solo difensore centrale, ma anche terzino su entrambe le fasce e persino mediano. Quando poi arriva Toninho Cerezo, l'ex Samp e Roma lascia Shoji un anno in naftalina e poi lo lancia da titolare. La missione è compiuta: quest'anno 38 presenze e due reti, ma sopratutto una maturazione che lascia ben presagire per il futuro. Ed è uno dei tre giocatori degli Antlers ad aver giocato l'intera stagione.

CARATTERISTICHE TECNICHE
Fisicamente non è un adone (un metro e 82 centimetri di altezza), ma Shoji sa imporsi all'interno dell'area di rigore. Il suo paragone è Yuji Nakazawa, per anni stella della difesa della Nippon Daihyo e oggi ancora centrale degli Yokohama F. Marinos. Come riporta Football Lab (terzo grafico in blu), il suo rendimento difensivo è stato esplosivo sopratutto nella prima parte del 2014, quando gli Antlers volavano in J-League. Le premesse per creare un difensore in grado di fronteggiare solidamente le offensive avversarie ci sono tutte.

STATISTICHE
2011 - Kashima Antlers: 2 presenze, 0 reti
2012 - Kashima Antlers: 18 presenze, 1 rete
2013 - Kashima Antlers: 5 presenze, 0 reti
2014 - Kashima Antlers: 38 presenze, 2 reti

NAZIONALE
Per ora nessuna presenza con la nazionale maggiore, ma Shoji si è portato avanti il lavoro. Dopo aver assaggiato l'U-16, l'U-19 e persino l'U-23, l'ex ct Aguirre l'aveva convocato per la Coppa d'Asia dello scorso gennaio. Il difensore non ha mai messo piede in campo, ma sicuramente è stata un'esperienza formativa per lui. E ora si aspetta che si prende la prima presenza con la Nippon Daihyo. Un peccato che - per età - non sia eleggibile per l'eventuale partecipazione alle Olimpiadi di Rio. Vedremo se il Giappone si qualificherà e in caso Teguramori deciderà di chiamarlo da fuori quota, come fu fatto per Yoshida alle Olimpiadi di Londra di tre anni fa.

LA SQUADRA PER LUI
Di sicuro c'è che un altro anno in Giappone può fargli solo che bene. Io mi permetto di segnalarvelo perché è un prospetto che promette bene, ma promettere qualcosa non significa automaticamente esser in grado di trasferirlo in Europa. Attendiamo che questo 2015 e poi ne riparliamo. Intanto osservatelo bene: potrebbe esser lui il nuovo partner di Yoshida nella difesa della nazionale giapponese.

24.2.15

Mi manda Maradona.

L'UAE League è ripresa da qualche settimana e l'Al-Ain si prepara oggi a esordire nella Champions League asiatica contro l'Al-Shabab. Il club viola cercherà di nuovo l'alloro continentale. Intanto la Coppa d'Asia ha sottolineato che gli Emirati Arabi Uniti sono una squadra interessante nel contesto asiatico. E della quale Omar Abdulrahman ha dimostrato di essere l'assoluta anima tecnica e spirituale.


Classe '91, Amoory è indiscutibilmente uno dei giocatori più interessanti di tutta l'Asia. Suo padre Ahmed è stato un calciatore, ma ora il migliore della famiglia è lui. La casualità vuole che sia un emirato per caso, perché Omar è nato a Riyadh, capitale dell'Arabia Saudita. Lì cresce con la voglia di diventare un calciatore, giocando nei pressi del Prince Faisal bin Fahd Stadium. Vicino a quel luogo così importante per il paese saudita dal punto di vista calcistico, lo nota lo scout Abdulrahman Eissa. Un provino all'Al-Hilal dimostra quanto Omar valga, ma il ragazzo non ha la nazionalità saudita. Il club gli offre la possibilità di averla, ma non fa altrettanto per la famiglia: così il padre del campioncino rifiuta e l'Al-Hilal ci piange ancora sopra.
Chissà, magari oggi lo vedremmo con la maglia dell'Arabia Saudita, che era una squadra importante nel continente asiatico fino a un decennio fa. Chi invece offre la cittadinanza a tutti è l'Al-Ain, che porta l'intera famiglia Abdulrahman negli Emirati Arabi. Da lì, Omar gioca in tutte le formazioni giovanili del club fino al 2009, quando Winfried Schäfer lo nota a un torneo per gli U-17 e se lo porta in prima squadra. Amoory ha solo 17 anni, ma dimostra di meritare la fiducia che il tecnico tedesco gli concede. Il debutto nell'Etisalat Cup e la scalata in prima squadra sono le logiche conseguenze di un talento così grande.
Da allora si sono succeduti ben dieci allenatori sulla panchina dell'Al-Ain, ma nessuno ha rinunciato al talento di Omar. E anche altrove hanno apprezzato il suo talento. Il Manchester City è posseduto da un gruppo degli Emirati, quindi un minimo di favoritismo c'è stato; tuttavia, i Citizens hanno offerto nell'estate 2012 un provino di due settimane al numero 10 dell'Al-Ain. Un provino andato bene, ma le regole sul permesso di lavoro non ha consentito ad Abdulrahman di vestirsi d'azzurro (nonostante il City offrisse quattro anni di contratto). Il City rimane vigile, ma si sono fatti sotto altri club: BVB, Barcellona, Schalke, Amburgo. Anche l'Arsenal si è fatto sentire, ma i Gunners hanno proposto "solo" un provino. Un'ipotesi che forse sottovaluta Omar: offerte del genere offendono il suo talento, anche se il numero 10 dell'Al-Ain si è detto pronto a provare il calcio europeo.
Già, Londra. Quella Londra dove è arrivata la consacrazione anche in nazionale. Prima membro delle giovanili, Abdulrahman è stato convocato per la prima volta con i grandi nel 2010. Ma è nelle Olimpiadi inglesi del 2012 dove si è intravista la sua classe per la prima volta. L'U-23 si era qualificata per il torneo finale, ma gli Emirati sono usciti subito in un girone difficilissimo con Uruguay, Gran Bretagna e Senegal. Tuttavia, Omar non ha mancato di mostrarsi tecnicamente dotato. Per altro, la squadra era guidata da Ali Mahdi, allora ct olimpico e oggi allenatore della prima squadra recentemente arrivata terza in Coppa d'Asia.

Abdulrahman con la maglia dell'Al-Ain, suo club dal 2005.

Ci si chiede se il ragazzo sia pronto per l'Europa. Vicino ai 24 anni, il momento sembra quello giusto per tentare il grande salto. Sicuramente Omar è determinato a provarci, ma dovrà attendere l'estate. Intanto in patria non ci si risparmia nelle lodi. Prendiamo in prestito le parole del presidente dell'Al-Ain, lo sceicco Abdullan bin Mohammed: «Omar è un tesoro nazionale, per questo il club studierà soltanto offerte serie che sono giuste per il giocatore. Non deve certo provare le sue capacità in un provino, visto che ha giocato gare internazionali. Siamo pronti a negoziare con qualunque club che avesse serie intenzioni per lui».
Un "10" puro adattato sulla fascia. Classe, eleganza e un occhio incredibile per i compagni, ricoperti di assist. Prima di lasciare gli Emirati, però, Omar ha una voglia pazza di conquistare qualcosa di importante con l'Al-Ain, club di una vita e al quale deve tutto. In fondo, se oggi quell'afro gira con la maglia numero 10 degli Emirati Arabi Uniti, lo si deve all'Al-Ain. Finora ha conquistato sette titoli con il club, ma manca ancora il trofeo più importante. Nel 2014 l'Al-Ain ha perso la semifinale della Champions League asiatica contro l'Al-Hilal. Quest'anno ci riproverà in coppia con Gyan Asamoah, dopo un 2013-14 con 23 assist stagionali (!).
I Mondiali russi del 2018 sembrano lontani, ma nei prossimi tre anni gli Emirati Arabi Uniti potrebbero avere una chance di esserci con quel 10 in mezzo al campo. Il terzo posto all'ultima Coppa d'Asia non è un caso: anzi, forse gli Emirati Arabi Uniti sono la squadra migliore della zona occidentale del continente. Con queste premesse, la Coppa del Mondo potrebbe non esser un miraggio. Del resto, la quarta qualificata del continente asiatico è sempre cambiata nelle ultime edizioni del Mondiale: nel 2006 l'Arabia Saudita, nel 2010 la Corea del Nord, nel 2014 l'Iran. Non è detto che la Russia non porti qualche novità.
In fondo, per Omar è arrivata anche la benedizione di Diego Armando Maradona, spesso ospite degli emiri. L'ex 10 argentino ha visionato Abdulrahman in una gara di qualificazione per l'ultima Coppa d'Asia. Fortunato, visto che il 2013 di Omar in nazionale è stato da due gol e dieci assist. Maradona ha detto del 10 emirato: «Sono rimasto impressionato dalle sue capacità: è un giocatore che fa sembrare tutto facile. Spero possa continuare così». Dopo tali dichiarazioni, diciamo che El Diez de Abu Dhabi merita una certa considerazione.

Omar Abdulrahman, 23 anni, il miglior 10 di tutta l'Asia.

20.2.15

La coppia italiana del futuro.

«Siamo la coppia più bella del mondo e ci dispiace per gli altri». Gli altri, sì. Quelli che tra qualche anno potrebbero invidiarci una coppia di centrali difensivi così. L'Italia ha un'ottima tradizione nel reparto arretrato, ma l'ultima grande coppia di difensori centrali che si ricordi è quella formata da Nesta e Cannavaro. In realtà, i loro successori stanno già giocando: seppur diversi, Daniele Rugani e Alessio Romagnoli possono ripercorrere quelle orme.

Daniele Rugani, 20 anni, fenomeni emergenti e colonna dell'Empoli.

Daniele Rugani viene fotografato mentre alzava felice la Supercoppa Italiana vinta dalla Juventus a Pechino nel 2012. Già colonna della Primavera bianconera, il giovane classe '94 è in realtà cresciuto proprio a Empoli, dove ha giocato per 12 anni nelle giovanili. E anche qui il vivaio toscano si conferma uno dei migliori d'Italia solo per aver plasmato un giocatore del genere. Dopo un passaggio in comproprietà alla Juventus, Rugani ha esordito tra i professionisti nella Serie B 2013-14, dove è stato una colonna della squadra di Sarri. Raggiunta la promozione, non ha fatto altro che confermare il rendimento già visto in cadetteria con i toscani. Solo marcando giocatori di più alto livello, come i vari Torres, Morata e Destro.
Diversa la storia di Alessio Romagnoli, che ha un anno in meno del collega e ha avuto già diverse occasioni in prima squadra. Nato centrocampista, viene spostato in difesa nei Giovanissimi giallorossi. Zdenek Zeman, tornato a Roma per la seconda volta, gli dà una chance nel 2012-13. Occasione sfruttata in pieno: Romagnoli gioca tre partite e segna anche una rete contro il Genoa. L'anno successivo arriva Rudi Garcia, che non lo utilizza tanto. Poi la moria di terzini sinistri costringe il francese - riottoso nell'uso dei giovani - a puntare su Romagnoli. Il classe '95 lo ripaga con delle buone prestazioni sulla sinistra, nonostante sia un centrale difensivo. Poi il prestito alla Samp (che voleva Romagnoli già a gennaio 2014) e il buon rendimento avuto sino a questo momento alla prima stagione da titolare in A.
A confermare la loro splendida annata ci pensano i dati Squawka. Tra i difensori della Serie A, Rugani ha il secondo miglior performance score dopo Leonardo Bonucci. È il secondo difensore ad aver tentato più tiri verso la porta dentro l'area avversaria dopo Marcos Alonso (che però, di professione, fa l'esterno nel 3-5-2 di Montella). È il difensore ad aver vinto la maggior percentuale di duelli aerei in A. Nonché il più presente per minuti giocati nella massima serie italiana: 2070', come lui solo Danilo dell'Udinese.
Se Rugani è ormai il principino della difesa azzurra, Romagnoli ha bisogno di altre conferme. Ha iniziato a bomba il campionato con la Sampdoria, spodestando persino il capitano Daniele Gastaldello dagli undici titolari. E sì, Gastaldello dice che questo non ha influito nella scelta di lasciare Genova per Bologna lo scorso inverno, ma qualcosina potrebbe centrare. Sempre secondo Squawka, su una media per gara misurata tra i difensori U-21 delle principali cinque leghe europee, Romagnoli è il secondo per azioni difensive e rinvii. Non male per chi l'anno scorso a Roma era ritenuto un po' acerbo.

Alessio Romagnoli, 19 anni, si sta facendo valere alla Samp.

Oggi li vedete con la maglia di Empoli e Sampdoria, ma il loro destino è quello di tornare ai rispettivi ovili. Seppur sotto destini diversi. Il più difficile è quello di Rugani, che tornerà alla Juventus a fine anno. O almeno così si dice, perché c'è anche l'ipotesi che possa rimanere a Empoli un altro anno se i toscani si salveranno. Intanto però Chiellini e Bonucci invecchiano, Barzagli quest'anno non si è mai visto e Ogbonna viene mal sopportato dai tifosi juventini. Per questo Rugani sarebbe da lanciare, anche perché si è dimostrato un ragazzo con la testa sulle spalle. Queste le sue parole quando è stato convocato in nazionale: «Alla mia età è importantissimo giocare per crescere e fare esperienza. Il mio futuro? Non ci penso. Ho tutto da dimostrare».
Diversa la sorte di Alessio Romagnoli con la Roma: il centrale ha già giocato con Garcia, che forse non vede l'ora di riabbracciarlo. La concorrenza non è forte come in casa Juventus: Castan torna da un'operazione al cervello, mentre Yanga-Mbiwa e Astori sono rimpiazzi. Una coppia formata da Romagnoli e Manolas metterebbe a posto la difesa romanista per almeno cinque-sei anni. Lui ci spera: il sogno - neanche tanto nascosto - del centrale è quello di essere un titolare fisso e vincere qualcosa con la Roma.
E l'Italia? Il paese può sognare con questi due? Direi di sì. Entrambi hanno bisogno di una conferma a livello più alto, ma le premesse per una grande carriera da parte di entrambi ci sono tutte. In fondo, la crisi degli interpreti nel reparto arretrato costringerà Conte a chiamarli sul serio (e non per fare le riserve). Rugani è già stato chiamato, mentre Romagnoli ha presenziato a uno stage nel marzo 2014 sotto la guida di Prandelli. Sebbene l'ex tecnico della Juve preferirebbe aspettare, a breve toccherà a loro. Che Antonio lo voglia o meno. Perché loro sono destinati a diventare la coppia più bella del mondo. E agli altri in Europa dispiacerà, ne son certo.

Rugani più Romagnoli, il futuro della difesa azzurra?

18.2.15

Professione goleador (ma non è solo quello).

Lo spirito di Dixie Dean incastonato nel corpo di un robusto e arcigno difensore. Nazionalità serba, un passato nel calcio russo e un presente più che inquadrato in Premier League. Dopo Franz Beckenbauer, lo definirei il difensore con il senso del gol più spiccato mai visto in vita mia. Anche ieri Branislav Ivanović ha timbrato il cartellino: la sua quinta rete stagionale è valso l'1-1 negli ottavi di Champions sul campo del PSG.

Ivanović ha deciso la finale di Europa League 2013 con un suo gol al 93'.

Nei miei ricordi personali, la prima volta che ho visto Ivanović - guarda caso - è proprio mentre segnava un gol. Era l'estate del 2007, quando ancora si giocava la Russian Railways Cup: allora il serbo vestiva ancora la maglia della Lokomotiv Mosca e realizzò una rete contro il Milan campione d'Europa uscente di Ancelotti. Lo stesso tecnico che, qualche anno dopo, ne avrebbe scoperto l'incredibile utilità in campo.
Ivanović è stato uno dei pochi talenti serbi a uscire da una squadra che non fosse il Partizan o la Stella Rossa, bensì l'OFK di Belgrado. Da lì, il viaggio verso Mosca e poi verso Londra, dove è arrivato nell'inverno del 2008 per 13 milioni di euro. Tuttavia, Avram Grant - l'allora tecnico del Chelsea - lo trova fisicamente fuori forma. Mentre i Blues perdono la loro prima finale di Champions League, Ivanović non mette mai piede in campo nei primi sei mesi a Stamford Bridge. Dopo Grant, sulla panchina del Chelsea c'è Scolari, titubante nel far giocare Ivanović come terzino (dove preferisce Bosingwa). E anche da centrale non lo convince. Finché rimarrà Felipao, il serbo non vedrà molto campo.
Il difensore viene cercato con insistenza dalla Fiorentina, ma decide di rimanere a Londra. Tutto cambia quando arriva Guus Hiddink, che invece di Ivanović si fida e comincia a schierarlo con regolarità. Tanto che il serbo segna due reti nel doppio confronto dei quarti di finale contro il Liverpool in Champions League. Una titolarità che il serbo non perderà più: mai sotto le 41 presenze a partire dal 2009-10. Ancelotti, Villas-Boas, Di Matteo, Benitez e Mourinho non hanno mai rinunciato a uno così.
Del resto, perché farlo? Branislav Ivanović fa il difensore, ma nel tempo libero si diletta in avanti. E i dati confermano che è fondamentale nell'economia del Chelsea, specie quando conta. Il difensore serbo ha segnato 30 reti e fornito 28 assist da quando è arrivato a Stamford Bridge: numeri notevoli, specie per un giocatore del reparto arretrato. In più di un'occasione, il serbo è stato decisivo: il ricordo corre alla finale di Europa League ad Amsterdam nel 2013, quando una sua capocciata al 93' regala la coppa al Chelsea in finale contro il Benfica.
Accanto al talento da goleador, però, c'è anche un certo fuoco in campo. Ivanović è stato vittima del morso di Suárez in un Liverpool-Chelsea di due anni fa, ma è stato anche colui che non più di qualche settimana orsono ha cercato di mordere a sua volta - con testata incorporata - James McCarthy dell'Everton. Per disegnare un profilo del difensore del Chelsea, basta citare le parole di Rahaam Sterling sul serbo: «Il giocatore più spaventoso contro cui abbia mai giocato? Sicuramente Branislav Ivanović. Non è cattivo, è solo che è un carrarmato!».


La cosa strana è che Ivanović ha sviluppato quest'attitudine da goleador in Inghilterra. Né quando giocava in patria, né a Mosca è stato mai conosciuto come qualcuno capace di buttarsi in avanti e segnare così tanto. Oggi invece è il difensore offensivamente più pericoloso della Premier League: sì, Squawka ci ricorda che Leighton Baines è meglio di lui, ma il terzino dell'Everton batte i piazzati. Nelle migliori cinque leghe europee, Ivanović ha tirato in porta solo meno di Naldo del Wolfsburg (29 a 35), ma anche qui va ricordato che il brasiliano tira le punizioni.
A Ivanović manca solo un po' di fortuna con la sua Serbia. Due volte secondo all'Europeo U-21, giocatore dell'anno nel 2012 e nel 2013, Ivanović ha disputato un Mondiale con la Serbia, quello sudafricano del 2010, andato malissimo. Dopo i tanti fallimenti, in patria si spera che l'Europeo del 2016 possa essere una piccola rivincita, magari partecipandovi. Finora le cose non stanno andando bene (un punto in tre partite), ma Ivanović - capitano della nazionale - spera che la sorte serba possa cambiare nelle prossime gare.
Con il Chelsea ha vinto tutto (sei trofei), ma ora il difensore non si vuole fermare. Proprio ieri è andato a segno contro il PSG. E di lui bisogna rammentare le parole di José Mourinho, che ha fatto di Ivanović una delle colonne della sua seconda avventura a Londra: «Non so se gli vengono riconosciuti i giusti meriti, ma non penso che se ne preoccupi molto. Lui sembra dirti: «Fammi giocare, datemi la maglia da terzino destro e tutto andrà bene». Sta giocando bene da molti anni». Alla domanda se fosse uno dei migliori acquisti del club, lo Special One ha detto sì. Come dargli torto. Ivanović di professione fa il goleador, ma non è solo questo.

Branislav Ivanović, 30 anni, colonna del Chelsea da ? stagioni.

16.2.15

Il pifferaio di Brema.

"Il pifferaio di Hamelin" è una fiaba dei fratelli Grimm. Lì si racconta di un pifferaio che sarebbe riuscito a disinfestare la città di Hameln dai topi nel 1284. Una storia secondo alcuni realmente accaduta. Se ci pensiamo, la figura di Viktor Skrypnyk in questo momento ci va molto vicino. Grazie a lui e all'aiuto di Torsten Frings in panchina, la stagione del Werder è cambiata. E sabato è arrivata un'altra vittoria, stavolta contro il lanciatissimo Augsburg.

Skrypnyk ha vinto una Bundesliga con il Werder nel 2004.

Il pifferaio è proprio Skrypnyk , l'uomo delle sorprese: in 13 gare, nove vittorie e 28 punti conquistati. Praticamente quasi tutti quelli fatti dal Werder in questa stagione, tanto che i verdi di Brema viaggiano al settimo posto in classifica con 29 lunghezze, insieme all'Hoffenheim. Inoltre, il Werder è reduce da cinque vittorie consecutive, che l'hanno lanciato nella parte sinistra della graduatoria. E pensare che i giorni di Robin Dutt non sembrano così lontani, quando la squadra di Brema navigava in zona retrocessione.
La situazione del Werder non è nuova: come Stoccarda e Amburgo, è una delle squadre che ha subito il rimescolamento delle gerarchie della Bundesliga. Grande compagine degli anni 2000 (un titolo e una finale di Coppa Uefa), dal 2010-11 è partita la sofferenza. I Grün-Weißen hanno disputato l'ultima annata in Champions League e poi hanno cominciato a collezionare stagioni incolori: un 13°, un 9°, un 14° e un 12° posto nell'ultimo quadriennio. E della magica squadra che faceva sognare qualche anno fa sono in pochi a esser rimasti: capitan Fritz, il roccioso Prödl e il mediano Bargfrede. Degli Ailton e dei Pizarro nessuna traccia. Quest'anno le cose stavano andando anche peggio di quanto molti si aspettassero.
Robin Dutt - l'uomo che ha sostituito Thomas Schaaf (investitura pesante) - ha avuto un 2013-14 mediocre, ma si sperava potesse trascinare la squadra anche quest'anno alla salvezza. Invece il Werder ha fatto un mercato al risparmio e in Bundesliga questo può esser pericoloso. Via Ekici, via il simbolo Aaron Hunt, via il portiere Mielitz. In entrata, gli unici colpi da segnalare sono stati il bosniaco Hajrović e Bartels. Così nessuno si è stupito quando il Werder ha iniziato la stagione in maniera orrenda. Nelle prime nove giornate di Bundesliga non è arrivata neanche una vittoria (quattro sconfitte e cinque pareggi). L'unico successo fino a fine ottobre in gare ufficiali è arrivato nel primo turno di DFB-Pokal contro l'Illertissen, squadra di quarta divisione. E non è stato facile, visto che il 3-2 finale è giunto solo dopo i supplementari.
La testa di Dutt è volata e il board del Werder ha scelto la soluzione interna. Dentro Viktor Skrypnyk, uomo di fiducia al Weser Stadion. Classe '69, è arrivato in Germania nel 1996: otto gli anni spesi da giocatore con il Werder. Anzi, l'ucraino si ritirò vincendo campionato e coppa di Germania. Poi nove stagioni da allenatore delle giovanili del club, un anno da tecnico della seconda squadra e infine la promozione ai grandi. Nessuno si aspettava nulla di che, ma il buon vecchio Skrypnyk aveva pronta la sorpresa.

Franco Di Santo, 25 anni, sta esplodendo quest'anno.

L'ucraino non si è scomposto. Ha ottenuto subito tre vittorie consecutive tra campionato e DFB-Pokal, dimostrando che poteva rimettere in sesto la squadra. Poi la striscia straordinaria iniziata a dicembre e che sta continuando nel girone di ritorno: nelle ultime cinque gare il Werder è la squadra che ha fatto più punti, nelle ultime 10 sarebbe da Champions. E intanto Skrypnyk si è liberato anche di Eljero Elia, un corpo indesiderato in casa Werder insieme ad Arnautovic, che però ha lasciato Brema nell'estate 2013. Il tecnico ucraino ha persino incassato i complimenti di un certo Lothar Matthaus.
Come ha evidenziato Squawka qualche giorno fa, i motivi del cambiamento sono sotto gli occhi di tutti. Innanzitutto l'esplosione improvvisa di Zlatko Junuzović, che ha anche rinnovato il suo contratto con il Werder fino al 2018. Maestro dei calci piazzati, l'austriaco quest'anno ha messo a segno 4 gol e realizzato 8 assist (nonché 42 passaggi-chiave). Insieme a lui, l'altro punto di riferimento è Franco Di Santo: l'attaccante italo-argentino ha fatto vedere lungo la sua carriera qualche sprazzo di talento, ma è mancato sempre il grande salto. Nel 2014-15 sembra esser arrivato il suo momento: 10 gol in 14 gare, una media ottima e la consapevolezza di poter essere decisivo anche in Bundesliga.
Insieme a loro due, va ricordata la maturazione di giocatori come Bartels (utilissimo quanto sottovalutato), la maturazione di Lukimya e l'esplosione - non improvvisa - di un talento giovane e dalla classe cristallina come David Selke. Il numero 27 del Werder è stato il capocannoniere dell'Europeo U-19 disputato la scorsa estate (ve ne avevo parlato qui) e il club l'ha fatto giocare subito. Senza dimenticare l'acquisto di Vestergaard dall'Hoffenheim a gennaio: il danese - appena arrivato - ha permesso di rinforzare la difesa e il Werder ha preso appena quattro gol da quando è arrivato a Brema.
Insomma, Viktor Skrypnyk come il nuovo Thomas Schaaf? Potrebbe essere. Non tanto per i risultati, perché quello che ha fatto l'uomo di ? è difficilmente replicabile, con quarant'anni spesi nello stesso e unico ambiente. Più ripetibile invece è la scalata. La squadra non sembra straordinaria, ma con i giusti aggiustamenti tutto è stato più facile. E la sua percentuale di vittorie sinora è del 69,33%: non male. Se n'è accorta anche la dirigenza del Werder, che gli ha rinnovato il contratto fino al giugno 2017. Ma il merito di Skrypnyk è sopratutto uno: aver restituito ai tifosi del Werder quella squadra dal gioco offensivo che per anni ha fatto vedere grandi cose al Weser Stadion. E il "pifferaio di Brema" non ha certo intenzione di fermarsi qui.

Viktor Skrypnyk, 45 anni, l'uomo al comando del super-Werder.

14.2.15

UNDER THE SPOTLIGHT: Aleksandar Mitrović

Buongiorno a tutti e benvenuti a un altro numero di "Under The Spotlight", la rubrica che vi consente di approfondire coloro che stanno emergendo sul panorama del calcio europeo. Oggi andiamo nella Jupiler Pro League, dove l'Anderlecht è in lotta per l'ennesimo titolo nazionale. A guidarli in attacco ci pensa il giovane, ma già decisivo Aleksandar Mitrović, attaccante serbo arrivato un anno e mezzo fa nella squadra più titolata del Belgio.

SCHEDA
Nome e cognome: Aleksandar Mitrović
Data di nascita: 16 settembre 1994 (età: 20 anni)
Altezza: 1.89 m
Ruolo: Centravanti
Club: Anderlecht (2013-?)



STORIA
Nato a Smederevo nel dicembre 1994, Mitrović si forma nelle giovanili del Partizan di Belgrado, una delle migliori squadre della lega serba. Sei anni spesi con i Crno-Beli, poi il passaggio al Teleoptik nel 2011-12. La società del quartiere Zemun è affiliata al Partizan e gioca in seconda divisione, dove Mitrović fa intravedere qualcosa del suo talento: 7 gol in 26 partite stagionali. Tornato alla base, nel giugno 2012 l'attaccante firma il suo primo contratto da professionista e si prepara alla stagione che lo lancerà come uno dei giovani migliori in tutta l'Europa dell'est.
Il 2012-13 di Mitrović è una gemma. Il tecnico Vermezović gli dà fiducia e lui segna appena entrato nel debutto dei preliminari di Champions League contro il Valletta. Realizza un gol anche in Europa League contro il Tromsø. Non pago, tre giorni dopo Mitrović realizza un'altra rete, stavolta la prima in campionato. Questo è solo l'inizio di un'annata da incorniciare: 15 gol in 36 presenze in quattro competizioni, Mitrović entra a far parte della top 11 di quella stagione in SuperLiga. E l'Uefa lo segnala come uno dei migliori dieci giovani U-19 a livello europeo.
Inevitabile l'addio a Belgrado. All'inizio del 2013-14 è ancora al Partizan, ma l'accordo dura solo tre partite (in cui fa altrettanti gol). Tante le squadre su di lui, ma l'Anderlecht fa l'offerta giusta: a fine agosto 2013, l'operazione è chiusa per cinque milioni di euro. Giusto il tempo per Mitrović di entrare contro lo Zulte Waregem e fornire subito due assist. Il primo anno in Belgio è di ottima fattura: 16 reti in 39 gare, titolo con l'Anderlecht e addirittura qualche minuto in porta in Champions League (il portiere titolare, Proto, venne espulso).
Tuttavia, la Jupiler Pro League non è un campionato dal livello eccelso. Molte squadre belghe fanno diverse comparse in Europa, ma quasi nessuna di loro va molto avanti. L'Anderlecht di quest'anno, invece, ha fatto progressi. Merito della nuova guida di Besnik Hasi, ex bandiera del club: in Champions nulla da fare contro Borussia e Arsenal, ma i pareggi strappati in rimonta all'Emirates e al Westfalen sono buoni risultati, così come la partecipazione all'Europa League.
Tuttavia, forse qualche applauso andrebbe riservato anche a Mitrović, cresciuto moltissimo in questa stagione. A febbraio il serbo ha già eguagliato i gol della scorsa stagione con un numero più basso di presenze. Ha segnato sia all'Arsenal che al BVB (dove si è lasciato andare a un'esultanza particolare). E sembra un prospetto molto interessante, visto che ha solo vent'anni e può ancora migliorare.

CARATTERISTICHE TECNICHE
Classico centravanti d'area di rigore, in tempi di falso nueve Mitrović ci riporta al fascino dei van Nistelrooy. Molto alto (un metro e 89 centimetri), il serbo è comunque in grado di muoversi abilmente nell'area di rigore. Il pezzo forte della casa è il colpo di testa, preciso e letale, buono per tutte le stagioni. Se vogliamo proprio fare un paragone più attuale, la somiglianza con Olivier Giroud è notevole.

STATISTICHE
2011/12 - Teleoptik*: 26 presenze, 7 reti
2012/13 - Partizan: 36 presenze, 15 reti
2013/14 - Partizan: 6 presenze, 3 reti
2013/14 - Anderlecht: 39 presenze, 16 reti
2014/15 - Anderlecht (in corso): 32 presenze, 16 reti
* = Serbian First League (seconda serie nazionale)

NAZIONALE
L'esplosione avvenne nell'U-19, dove si è distinto nell'Europeo di categoria del 2013. In quella rassegna lituana, la Serbia vinse il titolo e Mitrović fu nominato miglior giocatore della manifestazione. Dopo un passaggio in U-21, il primo a chiamare Mitrović nella Serbia dei grandi è stato Sinisa Mihajlovic, suo estimatore. Il primo gol in nazionale, invece, è arrivato nel settembre 2013 nell'acceso derby contro la Croazia. La Serbia non se la passa bene a livello di risultati, ma ha Mitrović un faro di grande luce per il futuro.

LA SQUADRA PER LUI
Una cosa è certa: non rimarrà all'Anderlecht dopo la prossima estate. Troppo prepotente la sua ascesa, troppo appetibile il suo profilo per il mercato di molti club esteri. Da tifoso blucerchiato devo anche ammettere il mio dispiacere, perché la Samp fu molto vicina a Mitrović nell'estate 2013. Poi l'affare sfumò e lui si trasferì in Belgio. Ora i dirigenti del Doria avranno di che mangiarsi le mani: il serbo non andrà via a meno di 15-20 milioni di euro.

10.2.15

Darwinismo applicato al calcio.

Nato esterno di centrocampo, esploso da terzino e utilizzato ora anche da interno di centrocampo. Nero ma fieramente austriaco, nonché il più giovane esordiente con la maglia della nazionale (a soli 17 anni). Classe '92, ha già vinto tutto quello che un giocatore di club possa sognare con il Bayern Monaco. David Alaba ha recuperato da un lungo stop e sabato è andato anche a segno in quel di Stoccarda.


A 22 anni è difficile chiedere di più, ma tutto quello che Alaba ha conquistato nella sua sin qui breve carriera è stato meritato. Nato a Vienna, la sua famiglia è una miscela di culture diverse: sua madre è filippina, mentre suo padre è un nigeriano Yoruba, gruppo originario della parte sud-ovest del paese, nonché ex rapper e oggi dj. I suoi emigrarono a Vienna e diedero al loro bambino il secondo nome di Olatokunbo, che nella lingua Yoruba significa «ricchezza da una terra straniera». Mai un middle name fu così azzeccato da quelle parti.
Una ricchezza che però è arrivata solo dopo aver lavorato duro. Alaba cresce nelle giovanili del Rapid Vienna e gioca pure con la sua squadra riserve. Quando il salto in prima squadra sembra imminente, il Bayern Monaco intuisce il potenziale del giovane David e lo porta in Baviera nell'estate del 2008. Un anno speso tra U-17 e U-19, poi l'arrivo nella compagine delle riserve del Bayern. Il debutto in 3. Liga e le prime chiamate di van Gaal. Alaba prende il numero 27, che non sarà più abbandonato dall'austriaco.
L'esordio in prima squadra nel febbraio 2010 in una trasferta a Furth per la DFB-Pokal è solo l'inizio. E che inizio: entrato da un minuto, al suo secondo pallone toccato Alaba serve l'assist per il 3-2 di Ribéry. Tuttavia, van Gaal non lo vuole bruciare e così il Bayern presta il giovane austriaco all'Hoffenheim per sei mesi. Una buona esperienza, poi il ritorno a Monaco e le vittorie con Jupp Heycknes in panchina. Alaba non era in campo nella finale di Champions a Monaco di Baviera del 2012, ma è titolare in quella di Wembley dell'anno successivo.
Tuttavia, è stato Pep Guardiola a dimostrare l'importanza di David Alaba nello scacchiere del Bayern Monaco. Nel 4-3-3 o 3-4-3 dello spagnolo, Alaba ha giocato un po' ovunque: terzino mancino, esterno di centrocampo, mezzala, centrale sinistro di difesa e persino ala. E proprio Pep ha spinto perché il ragazzo rinnovasse nel dicembre del 2013: oggi Alaba si gode un contratto con il Bayern fino al giugno 2018. Sempre con Guardiola, l'austriaco è stato nominato per due volte consecutive nello UEFA Team of the Year. Quest'anno un infortunio l'aveva messo fuori gioco per due mesi, Guardiola si è esposto, affermando che Alaba è uno dei migliori al mondo.


Quattro volte calciatore austriaco dell'anno nell'ultimo quadriennio, Alaba ha raggiunto in questa speciale graduatoria un mito come Ivica Vastić. Ed è diventato ormai fondamentale anche per la sua nazionale: l'Austria non gioca un torneo internazionale dal Mondiale 1998, ma c'è da dire che con l'allargamento dell'Europeo a 24 squadre qualche chance ora c'è. La rassegna francese del 2016 potrebbe essere un buon palcoscenico per una nazionale piena di talento come quella austriaca. E sinora, guardando la situazione del gruppo G dopo quattro gare giocate, l'Austria è prima con 10 punti. E Alaba è stato decisivo contro Svezia e Moldavia.
Essere un punto di riferimento al Bayern Monaco di oggi ed essere il più forte giocatore della propria nazionale a soli vent'anni è qualcosa di straordinario. E Alaba è un giocatore straordinario. La cosa bella (o brutta per i suoi avversari) è che questo ragazzo può ancora migliorare. Può diventare uno dei 10 giocatori più forti al mondo. Ed è completo: basti pensare che cinque anni fa le sue doti migliori erano la velocità e un buon tiro dalla distanza. Oggi Alaba sa far tutto. Merito di Guardiola e di chi lo ha allenato, ma questo è dovuto anche un talento che non s'insegna, ovvero quello di saper leggere le partite in maniera chiara.
La sua maturazione è stata tale da poter azzardare su di lui il principio del darwinismo applicato al calcio. Grazie alla sua teoria sulla selezione naturale, sappiamo che Charles Darwin affermava come non sono i più forti a sopravvivere, ma coloro che sanno adattarsi meglio all'ambiente che cambia. E chi meglio di Alaba può rappresentare questo principio? Con un compagno di squadra come Philip Lahm (esempio di dedizione), l'austriaco sta attraversando una trasformazione alla Gianluca Zambrotta. Con il rischio di rimanere molto di più negli annali della storia non tanto per i trofei vinti, quanto per l'assoluto dominio tecnico-atletico che esercita sulla partita. Danke, David. Danke.

David Alaba, 22 anni, giovane stella austriaca del Bayern Monaco.

6.2.15

Volare senza Red Bull.

Quando si parla di Milton Keynes, il pensiero corre alla Formula 1. La Red Bull ha il suo centro di sviluppo situato proprio nella città del Buckinghamshire e il lavoro in quella sede ha portato quattro titoli Mondiali, nonché la creazione di un mito motoristico. Ma da quest'anno c'è una novità: non si parla solo di "lattine", bensì anche del Milton Keynes Dons Football Club. Una squadra nata da una separazione dolorosa, ma che oggi sta raccogliendo ottimi risultati.


La storia del MK è avvincente, quasi da soap opera. Per chi - come me - è nato al massimo alla fine degli anni '80, nessuno ha dimenticato del Wimbledon F.C. La Crazy Gang gialloblu vince una F.A. Cup nel 1988 e consente al club gialloblu di vivere 14 anni in Premier League. Nel 2000 la retrocessione è solo il preludio a un cambiamento epocale: la società verrà spostata altrove. Precisamente a Milton Keynes, città nata solamente nel 1967 e da sempre senza una squadra di calcio a livello professionistico. Il board del Wimbledon decide - con l'appoggio della Football Association - di consegnare lo storico club a Milton Keynes, nonostante la contrarietà della maggior parte dei tifosi. Nel 2004, la scissione diventa ufficiale: il nuovo Wimbledon si chiamerà MK Dons F.C. dopo aver sofferto una crisi finanziaria, mentre i vecchi Wombles sopravvivono con l'aiuto dei tifosi sotto il nome di AFC Wimbledon e scala cinque categorie (dalla nona alla League Two).
La storia ufficiale del MK Dons comincia quindi nel 2004. Una storia che non ha portato grossi successi finora e che è stata sempre vista in secondo piano rispetto a quella dell'originale Wimbledon. Forse non a torto, visto che la nascita dell'MK Dons è un'operazione commerciale, voluta dal consorzio "Stadium MK" all'alba degli anni 2000. Guidato da Pete Winkelman e dalla sua compagnia, l'Inter MK Group costruisce la storia del Milton Keynes. Un'operazione che ha portato uno scarso successo nei suoi primi anni, se pensiamo alla retrocessione dalla League One nel 2006. Poi la risalita e tre play-off disputati, tutti conclusi anticipatamente alle semifinali. Per altro, l'MK è stato allenato da tecnici come Paul Ince o Roberto Di Matteo.
Dal 2010, invece, il tecnico è Karl Robinson. Sotto la sua guida sono arrivati due quinti posti, che però non si sono tradotti nella salita in Championship. Arrivato ad appena 29 anni alla guida del MK, Robinson ha avuto una carriera nel calcio dilettantistico ed è stato poi assistente di Paul Ince. Dopo aver ottenuto buoni risultati, il suo contratto è stato allungato nel 2012, ma è in scadenza nel giugno prossimo. Nonostante la giovane età, Robinson sta lavorando bene, se è vero - com'è vero - che l'MK quest'anno è in corsa per la promozione diretta. I dati parlano da soli: 55 punti, secondo posto in classifica, 59 reti segnate (miglior attacco della League One). In più la grande notte del 26 agosto scorso, quando l'MK ha batutto in casa per 4-0 il Manchester United di van Gaal in una gara di League Cup. Proprio quel mago olandese che a Robinson piace così tanto. La corsa dei Dons in quella coppa si è conclusa, ma quella notte rimane la più importante della breve storia del club. Del resto, ci fu anche il record di presenze...


Nonostante un presente di successo, i conti con il passato non sono ancora chiusi. Finora tra MK Dons e Wimbledon ci sono stati tre incroci in dieci anni di vita. Il primo è stato nel dicembre 2012 in F.A. Cup, con la vittoria per 2-1 dei Dons. Nel 2014-15 sono stati addirittura due gli incroci: l'MK si è aggiudicato per 3-1 quello dell'agosto scorso in League Cup, mentre il Wimbledon si è preso la rivincita nel Football League Trophy per 3-2. Da notare che finora gli scontri sono stati tutti allo Stadium MK; chissà cosa accadrebbe in caso di ritorno dei Dons alla loro originale tana dal 2002, ovvero il Kingsmeadow.
Il presente parla di tante vittorie in questo 2014-15, di cui alcune sono vere e proprie goleade: 6-1 e 5-0 al Crewe Alexandra, 6-0 al Colchester, 7-0 all'Oldham Athletic. Nonché la consacrazione di alcuni giocatori: su tutti, basti la storia di Benik Afobe, prodotto del settore giovanile dell'Arsenal. Proprio lui segnò due reti in quella notte magica contro il Manchester United. Dopo 19 gol in 29 partite con i Dons, il Wolverhampton ha investito su di lui e l'MK ha dovuto dirgli addio a metà stagione. Chissà se l'Arsenal non si mangerà le mani di averlo venduto tra qualche anno. Ma si potrebbero citare anche Darren Potter, Jordan Spence, Will Grigg, Ben Reeves e sopratutto il giovane Dele Alli (classe '96 in prestito dal Tottenham, ma cresciuto nel vivaio dei Dons).
Tra i simboli del club c'è anche Dean Lewington. Anzi, il terzino rappresenta al meglio la spaccatura tra il vecchio Wimbledon e quello che si presenta come erede della sua tradizione. Oggi è il capitano dell'MK Dons, ma l'inglese classe '84 è cresciuto e ha esordito proprio con la maglia del Wimbledon che entrò in amministrazione controllata. Nato a Kingston upon Thames (sobborgo di Londra), è a tutt'oggi uno degli unici due membri originali rimasti all'MK Dons dopo la spaccatura dal Wimbledon (l'altro è il portiere David Martin). Lewington ha collezionato più di 500 presenze con il club e spera di festeggiare la promozione a fine anno.
Non sappiamo se la loro forma reggerà fino alla fine, ma finora la stagione del Milton Keynes è stata straordinaria. E c'è tanta voglia di Championship, anche perché c'è alle spalle un progetto finanziario solito. Di certo c'è che volare senza Red Bull è possibile anche allo Stadium MK.

Dean Lewington, 30 anni, capitano e simbolo del Milton Keynes Dons.

3.2.15

La banda dei giovani terribili.

Spesso ci troviamo a parlare del campionato olandese: l'Eredivisie produce una quantità straordinaria di talenti. L'Ajax ha dominato gli ultimi quattro campionati, ma potrebbe esserci un cambio al vertice. Già, perché la straordinaria banda di ragazzini terribili del PSV Eindhoven ha deciso di sconquassare gli equilibri olandesi: primi in campionato a +9 dall'Ajax, pronti per i sedicesimi di Europa League contro lo Zenit San Pietroburgo. E non è finita.


L'Olanda ha recitato un gran ruolo al Mondiale 2014, arrivando terza. Tuttavia, i club Oranje difficilmente stanno realizzando negli ultimi anni delle buone prestazioni. In Europa vengono spesso schiacciati: nel ranking Uefa per club, l'Olanda è attualmente al nono posto, dietro anche l'Ucraina e la Russia. Un andazzo che non migliorerà nei prossimi anni a meno che non si ottenga qualche risultato: quando il biennio 2010-12 sarà fuori dai calcoli del ranking, l'Olanda rischia di finire anche più in basso.
L'ultima squadra a vincere una competizione Uefa è stata il Feyenoord, che ha battuto il Borussia Dortmund nella finale di Coppa Uefa del 2002 giocata in casa, al De Kuip di Rotterdam. Per trovare l'ultima finalista olandese in Champions League, bisogna invece tornare al 1996, quando l'Ajax perde ai rigori contro la Juventus nell'ultimo atto di Roma. Quella squadra - allenata da van Gaal (non è un caso) - è stata anche l'ultima a vincere il massimo trofeo continentale: la vittoria arriva contro il Milan nella finale di Vienna del 1995.
Anche quando ci sono delle buone potenzialità, le squadre sono smantellate in nome dei surplus finanziari (basti guardare l'ultima campagna acquisti del Feyenoord nell'estate 2014). Di fronte al dominio dell'Ajax, una squadra che doveva recuperare da una stagione disastrosa era il PSV. A Eindhoven l'anno scorso hanno perso Strootman, Mertens e il treno Champions (eliminati nei preliminari dal Milan). La squadra è andata incontro a una striscia pessima di risultati in autunno. Neanche otto vittorie consecutive nel finale hanno permesso al PSV di entrare nelle prime tre, accontentandosi così del 4° posto finale. Fuori in Europa League nel girone, fuori in KNVB Cup subito.
Una stagione disastrosa, ma le cose sono cambiate rapidamente quest'estate. Innanzitutto c'è stata un'attenta campagna acquisti: partenze ridotte al minimo, a differenza di quanto è avvenuto con Ajax e Feyenoord. L'arrivo di due prestiti/rinforzi in difesa (Rekik e Isimat-Mirin), nonché l'aggiunta del messicano Guardado. L'andazzo è cambiato e lo si è capito sin dall'inizio di questa stagione, quando il PSV ha battuto l'Ajax all'Amsterdam Arena nell'agosto scorso: un 3-1 in rimonta, che ha delineato quanto di buono i ragazzi di Eindhoven potessero fare. Miglior attacco e miglior difesa, al Philips Stadion si godono l'imbattibilità casalinga. Infine, nel PSV giocano sia il capocannoniere che il miglior assist-man del campionato.

Philip Cocu, 44 anni, ex bandiera e ora tecnico del PSV.

Innanzitutto, il merito va a Philip Cocu. C'è voluto un anno di maturazione, ma ora l'ex calciatore di Barcellona e della nazionale olandese è uno dei tecnici più promettenti che circolano nel panorama europeo. Il suo collega Frank de Boer all'Ajax ha già vinto alcuni trofei, quest'anno potrebbero toccare a lui. È stato assistente per Bert van Marwijk mentre era il ct dell'Olanda (proprio come il suo ex compagno di nazionale De Boer), ma ora è pronto a spiccare il volo da solo. In fondo, Cocu ha già portato un trofeo a casa con il PSV: quando ha fatto da manager ad interim sul finire del 2011-12, ha vinto la coppa nazionale. Inoltre, il PSV lo ha assunto con un contratto di quattro anni nell'estate 2013, segno che il club crede ciecamente nel lavoro di Cocu.
Per quanto riguarda la squadra, di sicuro abbiamo a che fare con una delle compagini olandesi più forte degli ultimi anni. Lo scontro in Europa League contro lo Zenit dirà parecchio, ma di sicuro che c'è il talento dei giovani Rood-witten è abnorme. Formazione titolare con Zoet in porta; Arias, Rekik, Bruma e Willems a formare la linea di difesa. Schaars perno della mediana, con ai lati Maher e capitan Wijnaldum. Trio d'attacco con De Jong centravanti e la coppia Narsingh-Depay ai lati nel più classico dei 4-3-3 olandesi.
Età-media: 23,1 anni. Margini di miglioramenti: abnormi. Una panchina abbastanza lunga, se si pensa che Cocu può contare su Locadia, Isimat-Mirin, Guardado, Brenet, Hendrix. Il PSV ha tutto per dominare in lungo e in largo in Olanda, nonché materiale per affermarsi a livello continentale. Ora la la forza del club deve concentrarsi al prossimo mercato estivo. Non ci sono dubbi sul fatto che molti tenteranno di portar via i giovani gioielli da Eindhoven; il vero segreto sarà resistere a questi assalti. Se si vuol restituire un minimo di decoro alla reputazione dei club olandesi in Europa, è il minimo che si possa fare.

Memphis Depay, 20 anni, la stella più grande del club di Eindhoven.