30.4.13

ROAD TO JAPAN: Gaku Shibasaki

Bentornati, cari amici, alla consueta rubrica di fine mese "Road to Japan", con cui provo a segnalare i talenti più ficcanti del panorama calcistico del Sol Levante. Oggi mi vorrei dedicare ad un nome che potrebbe essere l'erede di Yasuhito Endo; lo stesso record-man di presenze in nazionale lo ha indicato come possibile successore nella "Nippon Daihyo". Lui, intanto, si sta facendo largo a modo suo: il suo nome è quello di Gaku Shibasaki, centrocampista dei Kashima Antlers.

SCHEDA
Nome e cognome: Gaku Shibasaki (柴崎 岳)
Data di nascita: 28 maggio 1992 (20 anni)
Altezza: 1.75 m
Ruolo: centrocampista centrale, regista
Club: Kashima Antlers (2011-?)



STORIA
Nato a Noheji, nella prefettura di Aomori, il ragazzo è già conosciuto da piccolo, tanto che nell'ambiente locale il suo nome non è sconosciuto agli addetti ai lavori. Tuttavia, il vero decollo arriva quando Shibasaki conosce Tsuyoshi Kuroda, che lo incita ad iscriversi alla Aomori Yamada High School: è la scelta giusta, visto che Gaku migliora giorno per giorno. Una bella responsabilità, così come il numero 10 che porta sempre dietro, anche nella Coppa del Mondo Under-17 che gioca con la nazionale. Nel frattempo, l'eco delle sue imprese all'88esima edizione del torneo interscolastico - dove l'Aomori Yamada arriva in finale - attirano molte squadre della J-League, vogliose di mettersi in squadra questo giovane talento.
I Kashima Antlers arrivano per primi, ufficializzando il suo acquisto il 19 gennaio 2011, dopo che avevano fatto firmare a Shibasaki un pre-contratto. Sotto Oswaldo de Oliveira, tecnico campione con il club di Ibaraki per tre volte, il ragazzo cresce con calma, anche perché frenato dagli infortuni: può esordire nella Champions League asiatica e mette in campo in J-League per 13 volte, con l'esordio datato 29 aprile 2011. La squadra vince la J-League Cup e Shibasaki è decisivo in semifinale, quando il segna il 2-1 contro i Nagoya Grampus, che darà il là alla vittoria nella competizione.
Nella stagione successiva, sulla panchina degli Antlers arriva Jorginho, che dovrà migliorare il risultato dell'anno passato; nonostante la brutta stagione del club, Shibasaki cresce costantemente e migliora a tal punto da stupire gli addetti ai lavori. Continuo in campionato, ma sopratutto nuovamente decisivo nella J-League Cup: ormai ribattezzata la "Ibaraki Cup", viste le performance degli Antlers, il Kashima vince ancora la competizione. In nove gare in coppa, Shibasaki mette a segno tre gol: due di questi sono in finale contro lo Shimizu S-Pulse (vinta per 2-1) e gli valgono il titolo di miglior giocatore della competizione. A fine anno, inoltre, arriva il riconoscimento ai suoi continui progressi, perché viene nominato "rookie dell'anno" ai J-League awards. Un anno pieno di soddisfazioni, che potrebbero continuare, specie guardando le sue ultime prestazioni: vedere la rete segnata contro l'Albirex per credere...

CARATTERISTICHE TECNICHE
L'incredibile dote di Shibasaki, se non la principale, è la capacità di essere utile in ogni zona del centrocampo: da quando è arrivato a giocare nei professionisti, è stato in grado di giocare da centrocampista centrale, regista arretrato, trequartista e su entrambe le fasce (esterno sia in un 4-2-3-1 che in un 4-3-3). A questo, Shibasaki accompagna un buon tiro dalla distanza ed un piede educato, nonché una discreta capacità di destreggiarsi nel dribbling e nell'impostazione. Yasuhito Endo ha ragione da vendere: il giovane Gaku ricorda l'Endo che si imponeva all'inizio degli anni 2000 con la maglia del Kyoto.

STATISTICHE
2011 - Kashima Antlers: 20 presenze, 1 gol
2012 - Kashima Antlers: 45 presenze, 4 gol
2013 - Kashima Antlers (in corso): 8 presenze, 2 gol

NAZIONALE
Si parla molto di lui in vista della Confederations Cup del prossimo giugno: con Hasebe che gioca da ala nel Wolfsburg e la mancanza di un vero vice-Endo, il suo nome continua a girare nell'entourage di Zaccheroni, che ci sta facendo più di un pensierino. Per ora, però, Shibasaki ha collezionato solo qualche presenza con l'Under-17 nipponica, con la quale ha giocato dal 2007 al 2009. In particolare, il ragazzo gioca la Coppa del Mondo di categoria, disputata in Nigeria nel 2009: il Giappone esce al primo turno, nonostante una squadra notevole (con Usami, Miyayoshi, Yoshiaki Takagi e Miyaichi). Ma il centrocampista fa una buona figura e porta sempre con sé quell'esperienza; chissà che non possa vestire la 10 anche in nazionale maggiore, un giorno, visto che è stato già convocato nel febbraio 2012, senza però scendere in campo.

LA SQUADRA PER LUI
La verità è che - per ora - sarebbe meglio se rimanesse con gli Antlers, visto che ne sta diventando un punto di riferimento e avrebbe la possibilità di crescere ulteriormente. Sicuramente, il consiglio migliore che si può dargli è di finire la stagione con il Kashima, sotto la guida di un grande come Toninho Cerezo, che può insegnargli i trucchi del mestiere. Poi, se avverrà questa maturazione, il posto in nazionale e una squadra europea lo attendono a braccia aperte: io sarei curioso di vederlo in Spagna, perché penso potrebbe imporsi. Non sarebbe male vederlo in quel di Valencia o con la maglia dell'Atletico; vedremo cosa gli riserverà il futuro, che appare molto luminoso.

28.4.13

Breitner, Jagermaister e promozione.

Tempo di verdetti in giro per l'Europa: da noi è ancora presto, ma in altre parti del continente c'è già chi può festeggiare. Prendete ad esempio l'Eintracht Braunschweig: il club torna in Bundesliga dopo ben 28 anni, grazie al gol segnato al 92' da Damir Vrancic sul campo dell'FC Ingolstadt. Grande gioia per i gialloblu e per gli 11mila tifosi presenti in trasferta, capaci di dominare questo campionato e che hanno mollato solo nel finale di fronte all'Hertha Berlino (anch'esso promosso). Una bella favola, che parte da lontano.

Un 26enne Paul Breitner con la maglia del Braunschweig nel 1977.

Campione nazionale nel lontano 1967, la compagine della Bassa Sassonia ha avuto la possibilità di avere in squadra uno dei più grandi interpreti calcistici che la Germania abbia mai prodotto: Paul Breitner. Il terzino giocò nella stagione 1977/1978 con la maglia dei "leoni" di Braunschweig, in una sorta di intervallo tra il Real Madrid ed il ritorno al Bayern Monaco. Inoltre, il club si è fregiato anche delle prestazioni (non esaltanti, a dir la verità) di un Pallone d'Oro come Igor Belanov. Infine, due curiosità da non scordare: l'Eintracht è uno degli 86 club fondatori della Federazione tedesca di calcio, creata a Lipsia nel 1900; in più, fu anche la prima squadra di calcio ad applicare lo sponsor sulle magliette, dotandosi della sponsorizzazione del liquore Jagermaister nel 1973. Insomma, la compagine di Braunschweig rappresenta un pezzo di storia tedesca.
Ciò nonostante, il club ha conosciuto una caduta libera dal 1985 in poi, anno della terza retrocessione dalla Bundesliga della sua storia. L'Eintracht, però, non riesce a risalire e scende ulteriormente di categoria nel 1987, realizzando per altro un curioso record: il Braunschweig retrocede nonostante abbia una differenza reti positiva (52 gol realizzati, 47 subiti). Dopo 10 anni di Regionalliga (l'allora terza divisione tedesca), il club attua la politica dell'"ascensore": risale brevemente in 2. Bundesliga nel 2002, per retrocedere subito. Altre due stagioni in terza divisione e poi nuovamente promozione nel 2005, salvo scendere nuovamente nel 2007. Alla crisi sul campo, si aggiunge quella finanziaria: con la nascita della 3. Liga (una nuova versione della terza serie nazionale), ci vogliono determinati criteri economici che il Braunschweig rischia di non rispettare; oltretutto, per qualificarsi alla nuova divisione, bisogna arrivare tra il terzo ed il decimo posto nella Regionalliga Nord del 2007/2008. L'Eintracht batte il Magdeburg solo per la differenza reti ed evita così la retrocessione in quarta divisione: un miracolo che apre la strada alla rinascita del club.
Nel maggio 2008, arriva la svolta: sulla panchina dei "leoni" gialloblu, si siede Torsten Lieberknecht. Ai più, anche in terra tedesca, sarà sconosciuto: è un ex giocatore, ritiratosi appena un anno prima, dopo aver speso gli ultimi quattro anni della sua carriera proprio con la maglia dell'Eintracht Braunschweig. Dopo avergli dato un posto da tecnico nelle sue giovanili, il club gli chiede di diventare l'allenatore della prima squadra: sarà proprio lui ad evitare la retrocessione dei "leoni" in quarta divisione. E non si accontenterà solo di quello, visto che - grazie a lui - il club comincia a migliorare e a tentare la scalata al calcio tedesco.

Dominic Kumbela, 29 anni, simbolo e goleador del Braunschweig.

Con l'arrivo anche del nuovo direttore sportivo, Marc Arnold, comincia la sinergia tra allenatore e dirigente che porta l'Eintracht in alto. I due avevano già giocato insieme, proprio con la maglia gialloblu dal 2003 al 2005, e si capiscono molto bene: così bene che il club comincia a farsi notare in tutto il panorama calcistico nazionale. Dopo un tredicesimo ed un quarto posto, l'Eintracht Braunschweig vince la 3. Liga 2010/2011, dominandola incontrastata: miglior attacco, miglior difesa, Kumbela capocannoniere, sette punti sulla seconda e ben venti (!) sulla terza. Un dominio così netto da far sperare in bene per la successiva stagione in 2. Bundesliga. Del resto, l'obiettivo è solo quello di non essere soggetti nuovamente all'"ascensore", ovvero al rischio di scendere nuovamente di categoria. Con gli stessi eroi della promozione - Kruppke, Petkovic, Dogan - raggiungere l'obiettivo stagione è possibile: infatti, il club ottiene un tranquillo ottavo posto, con la salvezza raggiunta con largo anticipo (tanto che la squadra colleziona 28 dei 45 punti finali nel girone d'andata). Qualche soddisfazione, come la vittoria sul campo dei futuri campioni del Greuther Furth, aggiunge orgoglio al lavoro di Lieberknecht, al quale viene rinnovato il contratto fino al 2015.
Anche quest'anno, il club è partito a razzo: una serie di 14 partite utili (dieci vittorie e quattro pareggi) ha portato ben 34 punti, prima della sconfitta sul campo dell'Energie Cottbus. Con 44 punti ottenuti nel solo girone d'andata, il Braunschweig doveva semplicemente passeggiare nel ritorno; ci sarebbe voluto un tornado per impedire la promozione agli uomini di Lieberknecht, che ha messo in piedi un vero miracolo e a cui vanno dati i giusti meriti. Non era facile mettere in difficoltà squadre come l'Hertha Berlino, il Colonia o il Kaiserslautern. Ad inizio stagione, la promozione era solo un sogno; venerdì è diventata realtà, grazie alla vittoria decisiva sul campo dell'Ingolstadt, evitando così anche il play-off tra la terza della seconda divisione e la sedicesima classificata della Bundesliga. Un plauso va anche a Dominic Kumbela: arrivato un po' per caso nel 2008, dopo esser stato licenziato dal suo precedente club, il congolese gioca appena sei mesi con l'Eintracht, segnando appena due gol. Poi, dopo il Paderborn ed il Rot-Weiss Ahlen, nel 2010 torna a Braunschweig, dove diventa decisivo: 19 reti per la promozione dalla 3. Liga, 10 nella stagione successiva ed altri 19 in quest'annata fantastica. Se poi si analizza il rendimento dell'attaccante, si nota come le sue marcature siano decisivi: 12 dei suoi gol stagionali hanno portato ben 19 punti all'Eintracht Braunschweig. Oltretutto, in gennaio ha rifiutato la chiamata della sua nazionale per la Coppa d'Africa, la Repubblica Democratica del Congo, al fine di concentrarsi sul club. Più decisivo di così...
Ed ora l'avventura della Bundesliga: certo, si può vincere ancora il campionato, visto che l'Hertha è ad un solo punto di distanza (seppur i berlinesi abbiano una gara in meno). Intanto, però, i "leoni" di Braunschweig si possono godere la meritata promozione con grande felicità: auguri a loro per la prossima avventura in Bundesliga, 28 anni dopo l'ultima.

Torsten Lieberknecht, 39 anni, portato in trionfo dai suoi giocatori: è Bundesliga!

26.4.13

L'uomo che timbrava sempre.

Che semifinali di Champions: il dominio tedesco sulle spagnole (otto gol fatti e uno subito) ha lasciato molti senza parole, stupiti dall'impotenza di Barca e Real di fronte alle due potenze teutoniche. E poi c'è il poker realizzato da Robert Lewandowski in Borussia-Real: il polacco sta crescendo velocemente e l'avvicinamento ai mostri sacri che giocano nel suo ruolo (vedi Falcao o Cavani) avviene a velocità elevate.

Un giovane Lewandowski con la maglia del Lech Poznan, dove è esploso.

Ci sono partite che segnano la vita di un calciatore: Owen in Argentina-Inghilterra dei Mondiali 1998 o Rooney in Everton-Arsenal del 2002. Ecco, Borussia-Real rischia di essere decisiva per la carriera di questo ragazzo venuto dall'est. Classe '88, Lewandowski cresce in quel di Varsavia: in particolare, è il Delta Varsavia a farlo esordire nella terza divisione nazionale, dove segna quattro gol in 10 partite a soli 17 anni. 
Da lì, è un'escalation: dal 2006 al 2008, gioca con il Znicz Pruszków, che ottiene la promozione nella serie cadetta e sfiora il doppio salto grazie ai suoi 36 gol in due anni. Così il Lech Poznan - squadra della prima divisione - lo prende per appena 360mila euro. Mossa geniale: il ragazzo segna alla prima gara ufficiale (in Coppa Uefa) ed è decisivo per le sorti del club, nonostante sia un 20enne senza alcuna esperienza a gran livello. 
Il Lech vince il campionato nel 2010, Robert è capocannoniere e il giocatore comincia ad attrarre l'interesse di alcuni club europei: fra questi, il più veloce è il Borussia Dortmund, che prende un 22enne da 41 gol in due stagioni per 4,5 milioni di euro. L'intuizione è di Klopp, che come al solito ci vede più lungo degli altri. E pensare che il Genoa lo aveva anche portato al "Ferraris" a vedere un derby, ma non se ne fece nulla.
Il primo anno di Lewandowski è d'adattamento al calcio tedesco, così diverso da quello polacco: nel Dortmund che vince la Bundesliga, il titolare è Lucas Barrios, che viene da un buon Mondiale e realizza ben 16 reti in quella stagione. Lewandowski timbra nove volte in tutto il 2010/11 e si fa trovare pronto quando ce n'è bisogno. 
Poi arriva la svolta della sua carriera: Barrios si fa male all'inizio della stagione successiva e così il polacco ha molti minuti a disposizione, conquistando così il ruolo di titolare. Non c'è dubbio: l'impatto dell'ex Lech è devastante, specie in una squadra che gioca con il 4-2-3-1. Il risultato è manifesto: 30 gol stagionali, terzo top-scorer in campionato e double (campionato più coppa nazionale). 
Inoltre, a mettere il sigillo su questi titoli, è proprio il polacco, che realizza una tripletta nella finale di DFB-Pokal e segna l'unico gol che decide la sfida tra il BVB e il Bayern, rivali per il titolo. Di fronte a questa dimostrazione di forza, il Dortmund decide di disfarsi dello scontento Barrios - che chiede un esoso aumento d'ingaggio e viene così lasciato libero -, mentre Klopp si tiene il suo centravanti, cresciuto parecchio. Forse però nessuno si aspettava quanto visto quest'anno...


Lewandowski e il gol a Euro 2012 con la maglia della Polonia.

Il Dortmund riparte dagli stessi interpreti, nonostante le cessioni di Kagawa e del paraguayano, e riesce a confermarsi squadra temibile anche fuori dai confini nazionali. Se la Bundesliga è dominata dal Bayern Monaco, il BVB si fa notare in Champions, dove adesso è a un passo dalla finale (già raggiunta e vinta nel '97): in tutto questo, Lewandowski c'ha messo del suo. 
Attuale top-scorer in Germania (23 gol in 27 presenze), il polacco può fare la storia. L'attaccante ha battuto il record del club riguardante la striscia più lunga di partite in cui un giocatore è andato in gol, segnando per 12 gare consecutive. Inoltre, in Champions, il 9 giallonero è a quota 10 gol e non è detto che non superi Cristiano Ronaldo, capocannoniere della massima competizione europea con 12 reti. Specie dopo la partita di mercoledì sera
Come detto in apertura di articolo, mercoledì sera è stata una di quelle notti che ti cambiano la carriera. Lewandowski ha dimostrato di saper fare e avere tutto per diventare un top-player: sportellate in area, senso della posizione negli ultimi 20 metri, gran destro, reattività e sopratutto una fame spaventosa. 
Quattro gol contro il Real Madrid non si fanno per caso e ci sono stati già 10 giocatori che hanno segnato un poker in Champions; eppure, essi sono frutto di tutte queste doti e permettono di capire che il ragazzo è pronto a raggiungere quei mostri sacri del mestiere, che rispondono al nome di Falcao e Cavani. Inoltre, il polacco è stato il primo a realizzare quattro gol in una semifinale di Champions. 
L'unico dubbio riguarda la capacità di stare tranquilli: è notizia di questi giorni la possibilità di un suo probabile passaggio al Bayern Monaco, dopo che il BVB ha già lasciato andare in Bavaria Mario Götze. I gialloneri guadagneranno parecchio (65 milioni di euro tra i due), ma perderanno molto in potenziale tecnico.
La domanda è: quanto il polacco riuscirà a stare concentrato in questo finale di stagione? Figuriamoci poi se la finale di Champions League fosse Bayern-Borussia: vi immaginate una gara vinta per 1-0 dal BVB, magari con gol del centravanti su assist di Götze? I tifosi bavaresi vivrebbero l'ennesimo psicodramma.
In ogni caso, questa è la favola di Robert Lewandowski, l'uomo che timbrava sempre. Non per nulla, il polacco porta con sé un particolare record: è stato capocannoniere di ogni torneo nazionale che ha giocato e si avvicina ad esserlo anche per la Bundesliga. Chissà che non confermi tale reputazione nei prossimi anni: si avrebbe a che fare non con un normale centravanti, bensì con un fenomeno.

Robert Lewandowski, 24 anni, festeggia dopo il poker al Real Madrid.

22.4.13

Atene città scoperta.

Tempi di crisi in Europa: se poi si volge lo sguardo alla Grecia, si capisce come ci sia un rimpasto non solo politico e culturale, ma anche di tipo calcistico. Infatti, la Superleague ellenica ha visto il solito Olympiakos campione ed il PAOK a seguire, ma sopratutto ha assistito a due cadute pesanti per l'ambito nazionale: il Panathinaikos è fuori dalle coppe europee, mentre l'AEK Atene è riuscito a fare addirittura di peggio, con la retrocessione. Tra l'altro, è la prima nella storia del club giallonero.

L'invasione dei tifosi dell'AEK Atene dopo che la propria squadra è retrocessa.

Diverse le storie dei due club, quasi uguale l'importanza di entrambi sul panorama calcistico greco. Il Panathinaikos, quest'anno, ha anche affrontato la Lazio e ha sfidato molte italiane nel corso degli ultimi dieci anni: ha giocato contro Juve, Udinese e Inter in Champions, mentre Roma e Lazio se lo sono trovate di fronte in Europa League. Se i greci furono indigesti per i giallorossi, la Lazio se l'è cavata bene contro il Panathinaikos di quest'anno. Ma questa squadra non rappresenta più una superpotenza a livello nazionale: nonostante i 42 titoli in patria ed una finale di Coppa dei Campioni nel 1971, To Trifylli" non rappresenta più un pericolo per le altre squadre. Infatti, le numerose cessioni portate a termine in questi ultimi anni, più la perdita di pezzi da "novanta", come Cissé, Ninis, e di colonne della nazionale, come Karagounis, Salpingidis, Tzorvas o Vyntra, hanno lanciato il "Pana" nel baratro. Lo scarto decisivo è stato in questa stagione: via molti punti di forza, dentro giocatori comprati a zero o senza un passato, né - probabilmente - un futuro (gli esempi Fornaroli e Owusu-Abeyie dovranno pur dir qualcosa). Una difficoltà economica evidenziatasi proprio nell'acquisto dell'ex Samp, quando il Panathinaikos comprò il giocatore non dalla società blucerchiata, bensì da una squadra uruguaiana, che faceva da intermediario, in modo che i greci pagassero meno tasse sul suo trasferimento. Insomma, la stagione non è partita sotto i migliori auspici e si è confermata tale a seguire: eliminata nei preliminari di Champions dal Malaga, senza neanche fare un tiro in porta, i verdi di Atene sono poi usciti dal girone di Europa League, senza creare alcun problema al Tottenham e alla Lazio. In campionato, l'andazzo è stato lo stesso: grossa crisi iniziale, quattro allenatori in tutta la stagione ed una conclusione fuori dall'Europa. Una flessione critica e molto grave. Ancor più grave se si pensa che, nel 2010, la squadra aveva portato a termine il double: campionato più coppa nazionale.
Difficile anche capire come si possa ripartire: il Panathinaikos ha dei giocatori interessati su cui rifondare i propri successi. Il portiere Kapino, 18enne all'epoca, esplose prima degli Europei dell'estate scorsa, poi non fu più chiamato e adesso è stato messo anche da parte; Karnezis, 19enne trequarti offensivo, già convocato in nazionale, sta facendo buoni progressi e rimane il secondo giocatore più giovane della storia ad aver giocato in Champions League. Infine, i gol di Toché, bomber spagnolo che ha realizzato 12 gol stagionali: il peso dell'attacco sarà tutto su di lui. Per il resto, toccherà puntare su occasioni a costo zero e vivaio. Del resto, non può essere altrimenti per una squadra che ha ceduto quattro punti di forza (Leto, Vyntra, Christodoulopoulos e Spyropoulos) a costo zero nel mercato invernale.

Toché, 30 anni: 12 gol per lui con la maglia del "Pana" in questa stagione.

Ben peggio è andata all'AEK nel corso degli anni. Già, perché la crisi economica è evidente in Grecia, ma all'AEK è stata patita di più. Terza potenza del calcio greco fino alle scorse stagioni, i gialloneri di Atene vantano 28 titoli nazionali, anche se l'ultimo campionato vinto risale al 1994. Un'era fa, ma "l'aquila dalle due teste" era riuscita a tenersi in quota di galleggiamento: sempre in zona europea (compresa fra il secondo ed il quinto posto), l'AEK ha poi conosciuto diverse crisi economiche. Nella prima, a metà degli anni Duemila, fu l'ex giocatore Demis Nikopolidis a tirare fuori il club dai guai; nella seconda, iniziata nell'ultima stagione, si sono avuti più problemi di quanti immaginati, nonostante la vittoria della coppa nazionale nel 2011. In sede di mercato, si sono spesi appena 420mila euro, mentre in uscita c'è stato molto movimento, con l'addio al calcio di monumenti come Traianos Dellas (molti lo ricorderanno per i suoi trascorsi in Italia). Neanche la nomina a presidente del club di una leggenda dell'AEK come Thomas Mavros ha migliorato la situazione: due cambi d'allenatore, la cifra tecnica della squadra impoverita e tanta, tanta paura di retrocedere. La situazione economica, intanto, è peggiorata: infatti, le "aquile" giallonere rischiano la discesa in terza divisione, a causa di debito e di un passivo che ammonta a ben 40 milioni di euro. Difficile colmarlo con questa crisi, che colpisce sopratutto la Grecia. Infine, un caso che ha attirato l'attenzione di tutti: Giorgios Katidis, 19enne centrocampista dell'AEK, segna il gol-vittoria nella gara contro il Veria del marzo scorso. La sua esultanza si conclude con un saluto nazista; il ragazzo cerca di giustificarsi (miseramente, lo ammetto), adducendo l'ignoranza riguardante quel gesto. Risultato? Il giovane giocatore viene radiato a vita dalla nazionale ed il club è costretto a fare ammenda del peccato dell'inesperto Katidis, sospendendolo fino a fine stagione.
La chiusura di un anno maledetto, poi, si è manifestata nell'ultimo incontro giocato: con la retrocessione divenuta quasi matematica dopo la sconfitta con il Panthratikos, i sostenitori hanno invaso il campo con le spranghe, rincorrendo i giocatori. Così, il distacco dalla terzultima - proprio il Panthratikos - è diventato incolmabile e l'AEK giocherà l'anno prossimo in seconda divisione, per la prima volta nella sua storia.
Sembrano lontanissimi i tempi in cui queste due compagini giocavano in Champions o si contendevano campionati e coppe; Atene si riscopre calcisticamente debole e rischia di essere una città "scoperta", incapace di produrre buon calcio non solo a livello europeo, ma anche nazionale.

Traianos Dellas, 37 anni, ora allenatore dell'AEK: dovrà ripartire da zero.

17.4.13

Salto nel buio.

Il Galles, questo sconosciuto. Calcisticamente parlando, questo territorio ci ha regalato due dei più grandi giocatori che il calcio ha avuto negli ultimi quarant'anni: Ian Rush (seppur deludente nel suo passaggio alla Juventus) e Ryan Giggs, il "mago gallese". Non volendosi accontentare, è arrivato anche Gareth Bale, ora tra i cinque interpreti più forti al mondo. Tuttavia, il Galles comincia a far parlare di sé anche a livello di club: lo Swansea ha stupito tutti in questi anni. Dal gioco offensivo di Brendan Rodgers alle magie di Sigurdsson, dalle reti di Michu alla bravura di Michael Laudrup, capace anche di vincere la Coppa di Lega con gli "swans". Ma ben più curiosa e meritevole d'attenzione è la storia del Cardiff City, la cui parabola è meno nota e merita un accenno: la promozione in Premier League è arrivata ieri sera, nonostante la perdita della propria identità e la rabbia dei tifosi ad inizio stagione.

Robert Earnshaw, 32 anni, negli anni di risalita del Cardiff: lui è un prodotto del vivaio.

Sul Cardiff City mi ero già espresso, molto tempo fa, in un articolo riguardante le proprietà multimilionarie nel calcio: il binomio non sempre funziona ed i "bluebirds" erano un buon esempio. Segnati da una storia florida negli anni '20, la squadra gallese è stata l'unica a vincere la F.A. Cup da straniera, non essendo un club di nazionalità inglese (1925). Dopo i successi di quell'era, il Cardiff ha salutato la massima serie da 50 anni e ha anche militato qualche stagione in quarta divisione negli anni scorsi; tuttavia, dal 2003, il club ha riconquistato la seconda divisione, minima sopravvivenza per una piazza così storica.
A Cardiff, ne hanno viste parecchie, sopratutto negli ultimi anni: arrivati in finale di F.A. Cup nel 2008 e di League Cup nel 2012, i gallesi sono usciti sconfitti da entrambe le partite. Occasioni sprecate, così come nei play-off delle ultime tre stagioni, quando i "bluebirds" sono arrivati vicino alla meta: da ricordare l'epilogo del 2010, quando il club perse la finale dei play-off contro il Blackpool per 3-2. Tutto questo nonostante due cambi di proprietà: la gestione Risdale, che salvò parzialmente la squadra dall'amministrazione controllata e garantì la costruzione del nuovo stadio, e quella dei ricchi proprietari malesi, vogliosi di portare il Cardiff in Premier League.
Purtroppo, finora non ci sono riusciti e hanno aggiunto una beffa insopportabile per i tifosi dei "bluebirds": i proprietari hanno infatti deciso, nel giugno 2012, di cambiare i colori sociali e lo stemma dei gallesi. Avete capito bene: cambiare i colori sociali e lo stemma. Come se all'improvviso il Milan diventasse giallonero o la Roma, invece della lupa, avesse un serpente. Uno shock per tutti i tifosi del City, che si sono strenuamente opposti a questo cambiamento. Purtroppo per loro, se l'operazione non fosse andata a termine, gli investitori malesi avevano minacciato di non pagare il debito di 28 milioni di euro precedentemente contratto dal club nei confronti della Langston Group Corporation. E si sarebbe dovuto rinunciare anche alla costruzione di una nuova struttura d'allenamento per la squadra. Così, alla fine, si è arrivato al "compromesso storico": via la divisa blu (che diventa da trasferta) ed il "bluebird", dentro il rosso ed il "Y Ddraig goch", il dragone rosso che campeggia sulla bandiera gallese. Un'operazione di marketing, perché il drago è un simbolo famoso in Oriente (è portatore di fortuna) e permetterà al Cardiff di essere conosciuto in tutto il sud-est asiatico. Insomma, via la storia, dentro i soldi.

Anthony Gerrard, 26 anni, dopo il rigore sbagliato in finale di League Cup del 2012.

Seneca diceva: «Dal male non può nascere il bene, come un fico non nasce da un olivo: il frutto corrisponde al seme». Eppure, al Cardiff è girato tutto bene quest'anno: la squadra non è stata rivoluzionata, bensì rafforzata nei ruoli chiave nella scorsa estate. Gli arrivi di Kim Bo-Kyung, Connolly, Noone, Campbell, dell'esperto Helguson e dell'idolo natio Craig Bellamy hanno permesso ai "bluebirds" di guidare la testa della Championship fin dalla fine del girone d'andata. Insomma, il lungo lavoro e le delusioni accumulate negli anni stanno dando i loro frutti; tutto questo accade nonostante i numerosi cambi in società, dove il presidente del CdA, Whiteley, si è dimesso dopo esser stato accusato di frode. Così come ha fatto a marzo il proprietario malese, Dato Chan Tien Ghee, che si dedicherà ad attività che richiedono la sua completa attenzione.
Fortunatamente per loro, l'ambiente è coeso, unito e ha fatto esperienza delle occasioni sfiorate nelle stagioni passate: Malky Mackay, allenatore del Cardiff dal 2011, ha fatto tesoro della bastonata presa dal West Ham nei play-off dell'anno scorso e ha riorganizzato al meglio la squadra. Proprio lui che, in carriera, fu promosso per tre volte dalla Championship alla Premier League. Dopo due anni al Watford, è stato assunto dal club gallese ed i risultati sono arrivati: promozione e (forse) la vittoria del campionato, dopo anni di inseguimento. Così come è stato importante Peter Whittingham, l'uomo simbolo dei "bluebirds": a Cardiff dal 2007, il giocatore classe 1984 è uno di quei poliedrici del "football", capace di giocare da ala su entrambe le fasce, centrocampista centrale e trequartista, nonché grande specialista su calcio piazzato. Eppure, nonostante la duttilità e le buone doti tecniche che lo contraddistinguevano, ha attraversato tutte le delusione dei gallesi, dalle promozioni sfuggite alle finali di coppa perse. Ciò nonostante, è riconosciuto come un giocatore importante nella seconda serie inglese, tanto da esser inserito per due volte (nel 2010 e nel 2012) nella top-11 della serie. Ora, per lui come per altri, la grande occasione è arrivata.
Una rivincita, sancita dal pareggio casalingo ottenuto ieri contro il Charlton: uno 0-0 che ha significato il ritorno dei gallesi in Premier dopo ben 51 anni di assenza. I tifosi hanno invaso la città, festeggiando però con il blu che ricorda loro il passato, da dove è arrivata questa promozione: una promozione più che meritata, basata sullo spirito e sul gioco di squadra, visto che nessuno dei giocatori del Cardiff è andato in doppia cifra  in campionato. Certo, l'anno prossimo servirà qualcosa in più, sopratutto in difesa ed in attacco, visto che in Premier un bomber è sempre necessario. Ma adesso si festeggia e si attende il derby contro lo Swansea, il primo tra squadre gallesi in Premier League: sarà storia!

Craig Bellamy, 33 anni, esulta ieri sera per la promozione del Cardiff.

15.4.13

UNDER THE SPOTLIGHT: Rodrigo

Buongiorno a tutti e benvenuti ad un altro numero della rubrica "Under The Spotlight", lo spazio dove posso pubblicizzare alcuni dei talenti più puri che si possono visionare in giro per l'Europa. Oggi vado avanti con un nome pesante, conosciuto ai più grazie alle imprese compiute con il suo club, il Benfica: sto parlando di Rodrigo Moreno Machado, conosciuto più comunemente con il nome di Rodrigo. Questo spazio è prodotto dall'imbeccata di un amico/appassionato; tuttavia, osservando i dati e la carriera del ragazzo, non se ne può che parlare bene.


SCHEDA
Nome e cognome: Rodrigo Moreno Machado
Data di nascita: 6 marzo 1991 (22 anni)
Altezza: 1.80 m
Ruolo: Attaccante (ala, seconda punta, prima punta)
Club: Benfica (2010-?)



STORIA
Cugino dei famosi Thiago Alcantara e Rafinha (giovani stelle del Barca), Rodrigo è nato in Brasile, a Rio de Janeiro, 22 anni fa. Il ragazzo muove i primi passi calcistici al Flamengo, per poi passare all'Ureca; a 14 anni, il Celta Vigo lo nota e lo porta immediatamente in Galizia. Quattro anni nelle giovanili, poi il Real Madrid bussa alla porta: il ragazzo venuto da Rio fa le valigie e si trasferisce volentieri nella capitale. Il brasiliano viene messo nella terza squadra del Real, che milita in quarta divisione spagnola; ci vuole poco, però, perché il ragazzo venga promosso al Real Madrid Castilla, seconda compagine dei "blancos", che giocano una divisione più in su. Il bilancio personale è molto buono per un 19enne ancora sconosciuto: 18 presenze e 5 gol.
Eppure, dal Portogallo, c'è già un club che vede qualcosa di più in questo ragazzino: il Benfica. I portoghesi, vogliosi di scommettere su Rodrigo, spendono 6 milioni di euro per averlo dal Real; insieme all'acquisto, c'è l'opzione per gli spagnoli di riprendersi il ragazzo al doppio nelle due stagioni successive. In realtà, Rodrigo dimostra come debba ancora crescere: al Benfica lo considerano un investimento per il futuro e, così, mandano l'attaccante in prestito al Bolton, in Premier League. L'impatto con l'Inghilterra è difficile: 20 presenze ed un solo gol per il ragazzo di Rio. Tornato a Lisbona, il tecnico Jorge Jesus decide di trattenerlo e di renderlo partecipe della squadra: il Benfica arriva ai quarti di finale di Champions, perdendo solo contro il Chelsea campione. Il club della capitale portoghese vince la coppa nazionale e l'ormai naturalizzato spagnolo arriva a 16 gol in 38 presenze stagionali, dimostrando di essere utile nella rotazione della squadra: tuttavia, non lo si può considerare un vero titolare, viste le presenze di Gaitan e Nolito, centrocampisti con vezzi d'attaccante.
Nell'estate successiva, però, cambia molto: Nolito parte e Rodrigo può avere altro spazio, sebbene il Benfica giochi con un modulo particolare (un 4-4-2 con due ali molto offensive). Lima e Cardozo sono i titolari, ma Rodrigo è una sorta di "dodicesimo uomo" e sfrutta bene ogni occasioni che gli capita a tiro: finora sono 11 i gol realizzati in 31 presenze. Con il Benfica vicino al titolo nazionale ed alle semifinali di Europa League, tutto può succedere: chissà che il ragazzo non stupisca nel corso finale della stagione.

CARATTERISTICHE TECNICHE
Se volete un termine di paragone calcistico, guardate Pedro del Barcellona: Rodrigo sembra esserne un'imitazione meglio riuscita, con meno tecnica, ma più velocità ed un tiro dalla distanza molto pericoloso. Ancor più duttile del numero 17 blaugrana, Rodrigo è prezioso perché in grado di occupare tutte le posizioni d'attacco. Sarebbe la manna di ogni allenatore: ala sinistra, ala destra in un 4-3-3, seconda punta in un 4-4-2 o 3-5-2, prima punta. E non è facile trovare un ragazzo della sua età che sia così poliedrico dal punto di vista tattico: i margini di miglioramento sono assicurati. Non è un ragazzo che nasce fenomeno, ma uno che sta diventando una "rising-star" del calcio europeo con il duro lavoro e con il tempo.

STATISTICHE
2009/2010 - Real Madrid C: 4 presenze, 1 gol | Real Madrid B: 18 presenze, 5 gol
2010/2011 - Benfica: 0 presenze, 0 gol
2010/2011 - → Bolton Wanderers: 20 presenze, 1 gol
2011/2012 - Benfica: 38 presenze, 16 gol
2012/2013 (in corso) - Benfica: 33 presenze, 11 gol

NAZIONALE
Rodrigo ha avuto di che scegliere: Spagna o Brasile? Non una scelta facile, visto che è difficile far parte di entrambe le selezioni. In realtà, il ragazzo non ha mai avuto grossi dubbi: cresciuto calcisticamente in Spagna,  ha giocato fin dalle giovanili per le "furie rosse", facendone tutta la trafila. Under-19, Under-20, ora Under-21, di cui detiene un record: nel marzo 2013, è diventato il bomber principe della storia della rappresentativa giovanile (13 reti in 12 presenze!). Oltretutto, le occasioni di incrementare il bottino ci saranno ancora, visto che la Spagna U-21 si è qualificata per l'Europeo di categoria della prossima estate, in cui sarà campione uscente. Per Rodrigo c'è anche un'esperienza con la nazionale olimpica, uscita malconcia dal Torneo di Londra dello scorso anno, quando uscì al girone eliminatorio. Del Bosque lo monitora, ma è presto per chiamarlo: l'Europeo U-21 potrebbe essere il trampolino definitivo. Ricordo comunque una postilla importante: non avendo esordito ancora in competizioni ufficiali con la Spagna, il Brasile potrebbe ancora convocarlo. Vedremo chi la spunterà...

LA SQUADRA PER LUI
Tornare all'amore giovanile - il Real Madrid - non sarebbe una brutta mossa. Tuttavia, la verità è che gli orizzonti di Rodrigo devono e possono essere più ampi: è uno dei pochi iberici che potrebbe farcela anche all'estero. Persino in Premier League, dove la colonia spagnola si sta allargando: sarebbe bello vederlo nel 4-3-3 di Rodgers. Chissà che il tecnico del Liverpool non pensi a lui; intanto, il futuro pare a Lisbona, dove il ragazzo può crescere almeno per un'altra stagione.


11.4.13

Spagna contro Germania, sfida infinita.

Dopo quest'incredibile due-giorni di Champions, i risultati sono sotto gli occhi di tutti: sarà un Germania-Spagna senza esclusione di colpi. Al di là degli accoppiamenti che saranno sorteggiati domani in quel di Monaco, si possono già tirare un paio di conclusioni: a) l'Inghilterra sta soffrendo un piccolo declino anche nel campo dei club; b) la Germania aspira a diventare la prima potenza europea del pallone; c) per l'Italia, saranno anni difficili se non si fanno i cambiamenti che in pochi auspicavano fino a qualche tempo fa (costruzione di stadi di proprietà e, sopratutto, politiche sui giovani costruiti in casa).

Cristiano Ronaldo, 28 anni, e Lionel Messi, 25: ancora vicini alla vittoria.

Già, perché in fondo - sopratutto le tedesche - rappresentano questo cambiamento. Un cambiamento iniziato da lontano, quando negli anni 2000 le accademie teutoniche cominciarono a costruire campioncini in casa, dopo il disastro del Mondiale 1998 e dell'Europeo del 2000; in quest'ultimo, la Germania uscì nel girone, perdendo tutte e tre le gare. Si presero provvedimenti ed i risultati si vedono oggi, a distanza di dieci anni e a conferma del fatto che il lavoro paghi. Prendiamo il Borussia Dortmund: la sua qualificazione non è stata limpida ed il Malaga l'ha certamente messo in difficoltà, con tanto di gol in fuorigioco per il passaggio del turno. Tuttavia, i dirigenti del BVB hanno fatto tutte le mosse giuste: costruzione di campioncini in casa (Grosskreutz, Reus), valorizzazione di giocatori sconosciuti (Kagawa, Lewandowski) o sottovalutati da altri club (Hummels venne scartato dal Bayern Monaco) e la tifoseria più fedele del mondo alle spalle. Solo in Germania e solo al "Westfalen Stadion", quando entri in campo, senti il timore come poche volte nella tua vita. Infine, l'artefice di questa magia, Jurgen Klopp: un padre di famiglia, una sorta di Nereo Rocco dei nostri tempi, capace di dialogare in maniera costruttiva con i giocatori. E di renderli fenomeni, in un sistema di gioco che regala spettacolo e titoli: due Bundesliga ed una coppa nazionale. Ora, la semifinale di Champions ritorna dopo 15 anni, quando ad eliminarlo fu proprio il Real Madrid.
Guardando invece il Bayern, si scopre poco o nulla di nuovo: i bavaresi sono una società d'elité nel calcio europeo e hanno sempre avuto una grande storia. Inoltre, sono attualmente un modello di gestione: oltre alla grandezza tecnica, la società di Beckenbauer è una delle più ricche del panorama europeo. Tutto questo è ottenuto grazie allo sfruttamento del marchio, alla capacità di costruire un ottimo stadio ed alla tifoseria, capace di fare il tutto esaurito dei biglietti per questa stagione già a luglio 2012. Anzi, la gestione bavarese sembra così bella da renderli i candidati per la vittoria finale: sul campo, finora, non c'è stata storia. La squadra ha avuto un paio di battute a vuoto (la sconfitta in Bielorussia e quella in casa contro l'Arsenal), ma ha già chiuso il campionato con sei giornate d'anticipo ed un titolo strameritato. Oltretutto, i bavaresi sembrano in un forma fisica perfetta e potranno permettersi il turn-over in campionato; poi, ci sono giocatori che stanno attraversando un momento straordinario della loro carriera (lo Schweinsteiger di questi tempi è inarrestabile). Infine, il "plus" potrebbe essere rappresentato da Josef "Jupp" Heynckes: già vincitore di una Champions League con il Real nel 1998, il tecnico di Moenchengladbach si ritirerà a fine anno dopo una grande carriera. E' in corsa per il "triplete": chissà se chiuderà con il botto.

Un sorridente Jurgen Klopp, 45 anni, al termine di BVB-Malaga.

Se la Germania sogna un dominio assoluto, la Spagna continua sui suoi standard di eccellenza. Infatti, Real e Barcellona sono ancora in semifinale. Su Mourinho, avevo fatto un pezzo ad inizio anno, sostenendo come potesse essere l'anno buono per la sua terza Champions: la Liga è andata da un pezzo, mentre i "blancos" potrebbero fare il "doblete", vincendo la Copa del Rey (finale contro i cugini dell'Atletico) e la Champions. Il cammino del Madrid fin qui non è stato trionfante come si pensava: nel girone, il Borussia Dortmund ha spaventato Mou sia al "Bernabeu" che al "Westfalen". Tuttavia, il Real è poi riuscito ad eliminare il Manchester United, sebbene l'episodio dell'espulsione di Nani aleggi sulla qualificazione del Madrid; infine, CR7 e compagni hanno anche eliminato la sorpresa Galatasaray, anche se hanno rischiato fino alla fine. Non è il solito Real, ma le notti di Champions esaltano Mourinho: del resto, il Real è alla sua terza semifinale consecutiva (come le stagioni del tecnico portoghese sulla panchina "blanca") e lo "special one" ha raggiunto questa fase della competizione per la settima volta nella sua carriera. Risultati mostruosi, che forse saranno premiati in quel di Londra a maggio.
Se Madrid attende, Barcellona è nel guado: i blaugrana hanno attutito al meglio la partenza di Guardiola in Liga, dove il campionato è vinto da almeno due mesi. Tuttavia, in Europa, il Barca del "tiki-taka" ha sofferto più del previsto e ha potuto arrivare alla sesta semifinale consecutiva solo grazie ad un Messi stratosferico. Insomma, il Barcellona formato Tito Vilanova è diventato più concreto e meno fantasioso. In più, esso soffre di una parziale Messi-dipendenza: lo si è visto anche ieri, quando il PSG è stato qualificato alle semifinali per una buona ventina di minuti, giocando anche bene. Insomma, più che mai, la possibile vittoria della terza Champions in cinque anni è sulle spalle dell'asso argentino, capace di ritirare su il Barca anche negli ottavi contro il Milan. Anzi, rivincere la coppa dalle grandi orecchie da protagonista sarebbe il sigillo sul quinto Pallone d'Oro con diversi mesi d'anticipo.
Siamo praticamente alla fine: domani ci saranno gli accoppiamenti delle semifinali, a cui non saranno presenti né le italiane, né le inglesi, né il PSG. Per le tre situazioni, vanno fatto discorsi diversi. Il PSG, alla prima esperienza in Champions dopo otto stagioni, ha fatto bene, arrivando dove poteva: certo, Ibra continua a non segnare gol nei momenti decisivi, ma lo svedese avrà la possibilità di riprovarci. Le inglesi - United escluso - hanno largamente deluso e stanno perdendo lo scettro di "re" del calcio: la squadra di Sir Alex Ferguson, perlomeno, può appellarsi alle decisioni folli prese dall'arbitro nella gara di ritorno contro il Real. Infine, l'Italia: l'Udinese non è riuscita a liberarsi dello Sporting Braga, lasciando Milan e Juve da sole. Entrambe hanno fatto bene, tentando ciò che potevano: i rossoneri, decimati dal mercato, sono arrivati al palo di Niang e ad un passo dalla qualificazione contro il Barca, battendo comunque i blaugrana all'andata. I bianconeri, senza un top-player davanti, sono arrivati dove avevo previsto, sbattendo contro una delle quattro-cinque squadre che non possono battere in questo momento.
Ora si attende la fine di questa entusiasmante Champions, pensando che il meglio debba ancora venire: Spagna-Germania, una sfida che non finisce mai.

Jupp Heycknes, 67 anni, è il favorito numero uno per vincere la coppa.

7.4.13

L'uomo della parte sbagliata.

5 maggio 2002: una data che, in ambiente calcistico italiano, significa molto. Quel giorno, un'armata di tifosi dell'Inter vide i nerazzurri perdere uno degli scudetti più incredibile della storia del calcio italiano; in una calda giornata di primavera, Karel Poborsky mise a tacere i sogni più fulgidi della "pazza" Inter. Quel che la gente conosce di meno - forse per l'età, forse per la memoria sbiadita - è il condottiero a capo di quell'impresa: Héctor Cúper. Quello che doveva essere il profeta del nuovo calcio pragmatico a livello europeo, oggi vive giorni difficili: le sue dimissioni - per altro respinte - dall'Orduspor, squadra della prima divisione turca, segnano un punto morto nella sua carriera da allenatore.

5 maggio 2002: Cúper e la sua Inter perdono lo scudetto all'ultima giornata.

Riguardando la carriera di Cúper, viene quasi da pensare a quei corridori che si perdono ad un metro dal traguardo. La svolta vittoriosa sempre ad un passo, ma mai veramente raggiunta: non a tutti capita, ma la frequenza con cui Cúper è andato vicino a certi trionfi è impressionate: insomma, l'uomo sempre dalla parte sbagliata. Una tendenza che si manifesta fin dalla prima squadra che allena, l'Huracán: i "quemeros" arrivano secondi nel Clausura del 1994, perdendo il titolo all'ultima giornata. Se vi suona familiare, il meglio deve ancora venire: le performance con l'Huracán gli permettono di passare al Lanús, con il quale Cúper centra il primo trofeo della sua carriera (la defunta Copa CONMEBOL). Il problema è che, con i "granate", sfiora nuovamente il successo: primo a tre giornate dalla fine dell'Apertura 1996, il suo Lanús perde colpi e finisce terzo; il tecnico riesce poi ad arrivare nuovamente in finale di Copa CONMEBOL, ma perde contro l'Atletico Mineiro. Insomma, il lupo perde il pelo, ma non il vizio.
Nonostante ciò, il suo lavoro è buono e così Cúper viene notato dal neo-promosso Maiorca, che lo ingaggia nell'estate 1997: la Liga scopre il lavoro dell'argentino, che porta la squadra delle Baleari al quinto posto in campionato ed alla finale di Copa del Rey, persa contro il Barcellona. In quell'epica finale, la compagine dell'argentino resiste in 9 contro 11 e perde soltanto ai rigori. Tuttavia, il Maiorca si qualifica per la Coppa delle Coppe 1998/1999 e la stagione successiva è - probabilmente - la migliore nell'intera carriera di Cúper: il Maiorca vince la Supercoppa spagnola, addirittura vincendo al "Camp Nou" contro il Barcellona. In campionato, la squadra ottiene il miglior posizionamento della sua storia, arrivando terza a soli due punti dal Real Madrid e qualificandosi per i preliminari di Champions League; tra ottobre e dicembre è anche prima. Ma è il cammino europeo il vero trionfo: nell'ultima edizione della Coppa delle Coppe, Cúper ed il suo Maiorca arrivano in finale, eliminando anche il Chelsea campione uscente. Nella splendida cornice del "Villa Park" di Birmingham, la squadra spagnola perde 2-1 con la Lazio: è l'ennesima occasione sprecata, ma il lavoro di Cúper è sotto gli occhi di tutti.
Così, il Valencia - "rising-star" del calcio spagnolo - lo assume nel 1999: Cúper rimane due anni al "Mestalla" e colleziona risultati straordinari. Di coppe, però, ne vince solo una: la Supercoppa spagnola del 1999, in cui batte nuovamente il Barcellona. Se in campionato colleziona un terzo ed un quinto posto, il Valencia si fa conoscere a livello europeo: nel 2000 e nel 2001, i "chotos" arrivano in finale di Champions League. Un risultato impensabile, ma non impossibile per l'uomo delle finali: peccato che, solitamente, le finali siano perse. Nel primo caso, fu il Real a fermare il Valencia in quel di Parigi, dopo che la squadra di Cúper aveva strapazzato Lazio e Barcellona. La seconda finale fu ancora più amara: andato in vantaggio con un rigore del fu Gaizka Mendieta, il Valencia fu schiacciato dal Bayern. La tattica attendista non pagò e, nella lotteria dei rigori finali, Kahn ipnotizzò i ragazzi di Cúper, portando la coppa a Monaco.

24 maggio 2000: Cúper ed il Valencia perdono la finale di Champions. 
Ne perderanno un'altra nella stagione successiva.

Il 4-3-1-2 di Cúper, però, non passò inosservato: Moratti e l'Inter vollero fortemente il tecnico argentino, convinti che l'uomo di Chabás potesse portare lo scudetto tanto agognato a Milano. L'"hombre vertical" è rimasto nella memoria collettiva dei tifosi per le delusioni, così forti da fare ancora male. Su tutte, il 5 maggio 2002: l'Inter, in testa da tutto il campionato, perde il titolo in un "Olimpico" tinto di nerazzurro dopo la clamorosa sconfitta per 4-2 contro la Lazio. Personalmente, ricordo come la stazione Termini fosse stracolma di orde di tifosi dell'Inter, pronti a festeggiare; oltretutto, l'Inter giunse terza, superata non solo dalla Juventus campione, ma anche dalla Roma. Per non smentirsi, Cúper è riuscito a ripetersi anche in Europa: l'Inter giunge sia alla semifinale di Coppa UEFA nel 2002, che a quella di Champions League del 2003. In entrambi i casi, arriva la sconfitta e la vittoria nella competizione di chi eliminò quell'Inter: nel primo caso, fu il Feyenoord a trionfare; nel secondo, i "cugini" del Milan.
Dopo tante delusioni, Cúper si separò dall'Inter di Moratti nell'ottobre 2003, nonostante il presidente nerazzurro gli avesse rinnovato il contratto per altre due stagioni: da quel momento in poi, le notizie su di lui sono sconosciute a molti tifosi. Tornò a Maiorca dal 2004 al 2006, salvo dimettersi quando il Maiorca è sul fondo della classifica; tenta una nuova avventura con il Betis Siviglia, ma viene esonerato dopo tre mesi. Dura  poco anche a Parma, dove viene assunto nel marzo 2008, con l'obiettivo di salvare i ducali dalla Serie B: verrà cacciato dopo aver racimolato appena nove punti in 10 gare, mentre i gialloblu vanno dritti in serie cadetta. A quel punto, Cúper tenta anche l'impossibile: diventa il nuovo C.T. della Georgia, ma riesce nell'incredibile impresa di non vincere neanche una gara del girone di qualificazione al Mondiale. Sette sconfitte e tre pareggi non gli valgono il rinnovo del contratto.
Attenzione, però: una parziale redenzione c'è stata. Contattato dall'Aris Salonicco nel 2009, ne diventa il nuovo tecnico e conduce la squadra sia al quinto posto in campionato che alla finale della coppa nazionale (guarda caso, persa). Nella stagione successiva, l'Aris elimina l'Atletico Madrid, campione uscente, dall'Europa League, arrivando per la prima volta nella sua storia alla fase ad eliminazione diretta. Tuttavia, una serie di risultati negativi convincono Cúper a lasciare la Grecia; il tecnico argentino prova di nuovo la Liga, salvo dimettersi dal Racing Santander, poi retrocesso. Infine, l'avventura turca con l'Orduspor, squadra della Süper Lig: oggi è pronto a dimettersi, con la squadra in zona retrocessione. Peraltro, Cúper non se la passa bene neanche fuori dal campo, come quando - nel gennaio 2012 - venne indagato per un affare di riciclaggio di denaro sporco. Insomma, l'uomo dalla parte sbagliata. Sopratutto sul campo.

Héctor Cúper, 57 anni: la sua avventura con l'Orduspor è alla fine?

4.4.13

Leoni decurtati.

C'era una volta una delle grandi di Portogallo, che poteva competere con due superpotenze del calcio lusitano, come Porto e Benfica. Quell'universo rischia di scomparire tra qualche mese: un altro nome importante del calcio europeo dovrà ridimensionarsi se vorrà sopravvivere. Parliamo dello Sporting di Lisbona, una delle tre "grandi" del calcio portoghese.
Il club è alle prese con una gravissima crisi finanziaria. Così grave che il neo-presidente del club, Bruno de Carvalho, ha già promesso grossi tagli dal punto di vista tecnico, ma anche amministrativo. Insomma, l'estate 2013 non promette benissimo per i Leões della capitale.

Bruno de Carvalho, 41 anni, neo-presidente dello Sporting dal marzo 2013.

Fondato ormai 106 anni fa, lo Sporting ha un'importante storia alle spalle: non è solo una società di calcio, ma una polisportiva che ha formato atleti vittoriosi alle Olimpiadi e che gestisce diversi sport (dall'atletica al tennis tavolo, passano per biliardo, ginnastica e boxe). Non è una novità, visto che in Spagna e in Turchia esistono molte polisportive, famose anche per il calcio. 
José Alvalade, suo fondatore, disse che avrebbe voluto che il club fosse «il più grande del mondo»: una pretesa forse troppo grande, ma lo Sporting ha avuto le sue soddisfazioni, sopratutto a metà dello scorso secolo. Tra gli anni '40 e '70, i biancoverdi hanno vinto 20 titoli, tra cui l'unico conseguito a livello europeo, la Coppa delle Coppe del 1964. 
Dagli anni '90 in poi, però, sono iniziate le difficoltà: i "Leoni" di Lisbona hanno faticato per vincere qualcosa, tanto che - negli ultimi 22 anni - sono arrivati "solo" 11 trofei e l'ultimo campionato vinto risale al 2002, quando nelle giovanili dello Sporting giocava un certo Cristiano Ronaldo. Già, perché i biancoverdi hanno avuto un grande merito: come Porto e Benfica, il club è stato in grado di lanciare grandissimi giocatori. 
CR7 è un esempio, ma se ne possono portare molti altri. Luis Figo, che ha giocato sei anni con lo Sporting prima di passare al Barcellona; Nani, ala del Manchester, che ha avuto un percorso simile a quello di Ronaldo. Ma ci sono anche Simao, Quaresma, Miguel Veloso e João Moutinho, tanto che Scolari ha definito il vivaio dello Sporting come «uno dei migliori al mondo». Con la creazione della Champions League per i giovani - la NextGen Series -, lo Sporting è regolarmente presente.
Se le vendite di questi giocatori hanno portato parecchi soldi alle casse del club, questo non è bastato a rilanciare effettivamente l'appeal dello Sporting a livello nazionale ed europeo: nell'ultimo decennio, i "Leoni" sono arrivati in finale di Coppa Uefa del 2005, per altro giocata in casa, ma persa 3-1 contro il CSKA Mosca in una serata da dimenticare. 
Il club ha vinto due coppe e due supercoppe di Portogallo, ma in campionato non è riuscita a scalfire il dualismo Benfica-Porto nelle ultime tre stagioni, perdendo qualche posizione rispetto alle compagini emergenti: lo Sporting Braga, ad esempio, è riuscito ad inserirsi in Champions al posto dei biancoverdi, disputando un buon cammino europeo. 
L'esempio della decadenza lo si può vedere nel 2010/11: stagione trionfale per il Porto, Sporting Braga in finale di Europa League, Benfica in semifinale nella stessa competizione. E lo Sporting? Terzo in campionato, a quaranta punti dalla squadra di Villas-Boas, eliminato ai sedicesimi di finale della seconda competizione europea: non il massimo.

 

Aver perso 3-0 in casa del Videoton in Europa League non deve aver aiutato la stagione.

Non è però tutto da buttare: l'ultima stagione ha fornito dei buoni segnali. L'arrivo di Ricky van Volfswinkel dall'Utrecht, per esempio, ha permesso allo Sporting di raggiungere le semifinali dell'ultima Europa League, venendo poi eliminato dal super Athletic Bilbao di Bielsa: Manchester City e Lazio tra le vittime celebri dei portoghesi.
Sembrava che ci fosse il materiale per ripartire con un nuovo ciclo, ma è stata un'illusione. A giugno scorso, si è scoperto che lo Sporting aveva un passivo di 220 milioni di euro (!); una cifra grande quanto il monte ingaggi del Real Madrid. Insomma, il rischio di fare la fine del Boavista (fallito nel 2009 e retrocesso in terza divisione) non è lontano.
Così, in estate, si è proceduto al ridimensionamento, anche attraverso cessioni importanti: via Mati Fernandez, João Pereira e Jaime Valdes. Nonostante lo Sporting faticasse in campionato e fosse uscito dal girone di Europa League, la dirigenza ha continuato a vendere anche nello scorso inverno: partiti anche Daniel Carriço, Emiliano Insua, Marat Izmailov, più il caso Pereirinha
Quest'ultimo è stato ostracizzato dai vari manager che lo Sporting ha avuto quest'anno e, per questo, ha optato per la rescissione del contratto, andando alla Lazio. In più, il club ha cambiato quattro allenatori (Sà Pinto, Oceano, Vercauten e Jesualdo Ferreira) e quindi la confusione regna sovrana in quel di Lisbona: non si sa quando questo brutto periodo finirà.
La zona Europa League in campionato è lontana solo tre punti, ma lo Sporting è più vicino alla zona retrocessione che a quella Champions. Uno scenario difficile, complicato dalle ultime notizie di mercato: il capitano Rui Patricio, Jeffren, Rojo e Cedric sembrano in partenza, con molte squadre alle loro spalle. 
Infine, il colpo di grazia è arrivato negli ultimi giorni: Ricky Van Volfswinkel ha già firmato per il Norwich, che fa uno dei colpi della prossima estate, visto il buon rendimento dell'olandese con lo Sporting; ai portoghesi andranno ben 10 milioni di euro, ma partirà un attaccante da 42 reti per i biancoverdi di Lisbona.
Si può guardare al futuro con fiducia? Sì, se si guarda il rendimento dell'accademia giovanile dello Sporting, capace di arrivare terza nella Champions League dei giovani e che potrebbe essere il serbatoio della rinascita. E lo Sporting potrebbe comunque giocare in Europa l'anno prossimo... fatto sta che i tempi di Figo e Cristiano Ronaldo sembrano più lontani che mai.

Ricky van Volfswinkel, 24 anni, lascerà Lisbona: l'olandese ha un accordo con il Norwich City.

2.4.13

Lontani dal Brasile.

Le qualificazioni ai Mondiali sono ormai passate da una settimana, ma le dichiarazioni di Sinisa Mihajlovic, C.T. della Serbia, hanno fatto veramente rumore: «Se non ci qualifichiamo al Mondiale, me ne vado». Una promessa pesante, specie se viene da un giocatore che ne ha dette parecchie nella sua carriera. Tuttavia, Mihajlovic ha un suo punto: l'ex tecnico della Fiorentina sta facendo molta fatica a trascinare il suo paese e la Serbia non riesce ad imporsi nel suo girone di qualificazione, dove il Belgio vola e la Croazia naviga bene a vista. Come mai? Eppure l'allenatore non dovrebbe essere sorpreso: la Serbia sta deludendo da diversi anni, nonostante un movimento calcistico in grado di creare campioni dalla classe pura.

Sinisa Mihajlovic, 44 anni: poche le speranze di vederlo al Mondiale con la sua Serbia.

Infatti, come la storia racconta, la Serbia è sempre stata terra di fenomeni. Magari non di squadre invincibili, ma sicuramente vi sono nati numerosi grandi giocatori; addirittura, uno dei club più famosi a livello nazionale - la Stella Rossa - fu capace di vincere la Coppa dei Campioni nel 1991. C'era una volta la Jugoslavia, almeno fino alla conclusione della guerra fredda nel 1989, con il crollo del muro di Berlino e del comunismo: uno stato che raccoglieva - calcisticamente parlando - il meglio di Serbia, Montenegro, Macedonia, Croazia, Bosnia e Slovenia. Da quel punto in poi, il destino sportivo della terra di Belgrado fu sempre incerto, così come quello politico, ben più importante. Tuttavia, con quell'evento, ebbe fine la storia di una nazionale tre volte medaglia d'oro alle Olimpiadi, due volte vice-campione agli Europei e quarta al Mondiale del 1962. A quel punto, la Jugoslavia - a causa della guerra presente dentro la nazione - fu bandita dalla FIFA per ben due anni (per caso, il suo posto ad Euro 1992 andò alla Danimarca, poi vincitrice del torneo); lo stato post-comunista raccoglieva gli attuali stati di Serbia e Montenegro, essendo una repubblica federale.
Riaccolta dalla federazione del calcio internazionale, la Jugoslavia partecipò ai Mondiali del 1998 ed agli Europei del 2000 In quest'epoca, questo movimento calcistico ha lanciato numerosi giocatori, consacratasi poi a livello europeo: Mijatovic, Jugovic, Savicevic, Stojkovic, lo stesso Mihajlovic ed il centrocampista dell'Inter Stankovic, arrivato in Italia proprio dopo i Mondiali del 1998. Dal 2003, invece, la nazione venne rinominata "Serbia e Montenegro", vista la trasformazione da repubblica federale a confederazione di stati; allo stesso modo si trasformò la nazionale, che riuscì a qualificarsi per i Mondiali del 2006, giocati in Germania. A un mese dalla competizione, accadde l'incredibile: nel maggio di quell'anno, il Montenegro votò "sì" al referendum per staccarsi dalla Serbia, rendendo così la nazione ulteriormente spaccata prima del Mondiale. Un esempio pratico: Mirko Vucinic, allora giocatore del Lecce, fu convocato per quel Mondiale, ma dovette rinunciare per un infortunio. Lui fu uno dei due unici giocatori nati in Montenegro convocati in quella competizione dalla nazionale, che poi uscì miseramente al primo turno, dopo tre sconfitte nel girone.
Insomma, un paese complesso, attraversato da tante trasformazioni: non per nulla, il giocatore più rappresentativo è Savo Milosevic, giocatore con più presenze (insieme a Stankovic) e con più gol realizzati in nazionale. Qualcuno se lo ricorderà per un breve ed inglorioso passaggio a Parma; eppure, Milosevic ha giocato tutte le massime competizioni a cui ha partecipato prima la Jugoslavia e poi la Serbia fino al 2006. Un uomo che ha vissuto tre nazionali diverse, tanto per rendere l'idea.

Dragan Stojkovic, 47 anni, qui capitano della Jugoslavia nel Mondiale del 1998.

Separatasi anche dal Montenegro, la Serbia non sta attraversando anni gloriosi dal punto di vista calcistico. La nazionale fatica e gli insuccessi si vedono partendo dai club: da quando la Serbia è rimasta da sola, ovvero dal 2006, solo una volta - con il Partizan - il calcio serbo è arrivato ai gironi di Champions League, nel 2010/2011; un risultato povero, visto che il club di Belgrado chiuse con sei sconfitte in sei gare. Si potrebbe dire che i talenti vengono portati via presto, come potrebbe accadere in futuro per il giovane Lazar Markovic, ma non basta come spiegazione. La nazionale non ha fatto di meglio in questi anni.
Prendiamo il Mondiale 2010: la Serbia vince il suo girone di qualificazione, battendo anche la Francia, e si presenta in Sudafrica con uno squadrone. Così recita la formazione-tipo: Stojkovic; Ivanovic, Vidic, Subotic, Kolarov; Kuzmanovic; Jovanovic, Stankovic, Ninkovic, Krasic; Zigic. Insomma, i ragazzi di Antic potrebbero essere la sorpresa del Mondiale, visto anche un girone fattibile: c'è la Germania, il Ghana e l'Australia. Nonostante ciò, la Serbia riesce a perdere contro Ghana e Australia, mentre vince contro i teutonici. Se il trionfo contro i "panzer" è caratterizzato da un rigore parato ed un uomo in meno, incredibile è cosa accade nella gara contro gli "Aussies": nonostante il dominio del primo tempo, i serbi sprecano maree di occasioni e buttano la qualificazione agli ottavi, quando gli bastava solo un punto.
Il copione si ripete nel girone di qualificazione agli Europei: inserita nel gruppo con Italia, Estonia, Irlanda del Nord, Slovenia e Far Oer, i serbi non possono battere la regolare Italia di Prandelli. Tuttavia, i balcanici riescono a mancare anche il secondo posto, valido per i play-off, lasciandolo incredibilmente all'Estonia. Mancato l'appuntamento continentale, la Serbia si è ritrovata con Mihajlovic C.T., mentre Stankovic e Vidic hanno abbandonato la nazionale. Il girone di qualificazione al Mondiale è tremendo: Belgio e Croazia sono due squadre diverse, ma ben più concrete e solide dei serbi. I risultati si sono visti subito: umiliazione in casa contro il Belgio, sconfitta in Macedonia ed il 2-0 subito in Croazia. Ora il Mondiale è lontanissimo, visti i nove punti di distanza a quattro partite dalla fine del girone: il doppio impegno contro Belgio e Croazia sarà decisivo quanto disperato. Tutto questo accade mentre il Montenegro, staccatosi dalla Serbia, riesce a centrare i play-off per l'ultimo Europeo e guida tuttora il suo girone di qualificazione, nonostante abbia l'Inghilterra nel suo raggruppamento.
Purtroppo, la Serbia è così, sin da quando si chiamava Jugoslavia: una squadra piena di talento, capace di incantare, ma sopratutto di far arrabbiare i suoi tifosi, già caldi di loro (vedi caso Ivan Bogdanovic a Genova). Adesso il registro sembra dover cambiare: in realtà, è più difficile di quanto si pensi. Non si può sistemare quel che non è cambiato per anni; il consiglio per Mihajlovic è di aggiornare il curriculum, in vista di una nuova sfida. La Serbia, purtroppo, sembra lontana dal Brasile: un paradosso, se si pensa che è il paese più vicino ai balcanici per il tipo di calcio praticato...

Dejan Stankovic, 33 anni, qui all'ultimo Mondiale con la maglia della Serbia.