30.7.12

L'ennesima telenovela londinese.

Ci siamo? Non ci siamo? E' difficile dirlo. Robin Van Persie galleggia da un lato all'altro della manica da un'intera estate. Dopo la sua straordinaria stagione 2011/2012 con la maglia dell'Arsenal (37 gol in 48 partite, capocannoniere della Premier League), molti si aspettavano che l'olandese - come altri prima - decidesse di andare via dai Gunners, facilitato dall'unico anno di contratto rimasto, che lo lascerà andare a parametro zero dal Giugno 2013.
Perciò, l'Arsenal è costretto a venderlo se vuoi monetizzare, dato che l'olandese ha già annunciato ad inizio Luglio la volontà di non rinnovare il contratto che lo vede ancora legato alla squadra londinese. Una dinamica già vista in casa Arsenal, avuta negli anni precedenti e che ha portato sempre ad una cessione estiva ad un grande club; non che l'Arsenal non lo sia, ma i risultati degli ultimi anni ed il livello di gioco mostrato dalla banda biancorossa non sembra essere più attrattiva per i giocatori, spesso vogliosi di andare a guadagnare di più altrove, specie se hanno dimostrato il loro valore.

Ormai l'Arsenal ha perso molto del suo appeal: ogni anno Wenger deve ritrovarsi con numerosi defezioni, ogni estate parte qualcuno ed i risultati non arrivano più. Un dato è indicativo in questo senso: dallo spostamento dell'Arsenal dal vecchio Highbury, teatro di molti successi, al nuovo Emirates Stadium, non è arrivato più un trionfo in casa Arsenal. Già, nonostante nell'ultima annata nel vecchio stadio fosse arrivata addirittura la finale di Champions League, poi persa contro il Barcellona.
Dal 2006/2007, infatti, i Gunners non hanno più alzato un trofeo e non sono più andati oltre il terzo posto negli ultimi sei anni di Premier League; in Coppa, i risultati non sono di certo migliori, con due finali in Carling Cup, perse entrambe nel 2007 e nel 2011, rispettivamente contro Chelsea e Birmingham City. In questo periodo, Van Persie è stata una delle anime portanti della squadra: l'olandese arrivò giovanissimo (neanche 20 anni) dal Feyenoord per poco più di tre milioni di euro, nel quale era cresciuto ed era sbocciato sotto la guida di Bert Van Marwijk, che sarà poi anche il suo C.T. in nazionale. Nei primi anni si era rivelato un ottimo uomo dalla panchina e non poteva essere altrimenti, dato la sua giovane età; ma il giovane Robin era stato bravo a guadagnarsi uno spazio nella squadra di fenomeni che l'Arsenal aveva all'epoca, tra Henry e Bergkamp, tra Wiltord e Reyes, tra Pires e Ljungberg.
Nel 2006, entra a far parte della formazione titolare e comincia a trovare un minutaggio superiore a quello degli anni passati: anzi, nella prima stagione all'Emirates Stadium è il miglior marcatore stagionale dell'Arsenal con 13 reti in tutte le competizioni, tra cui lo straordinario gol al Charlton Athletic, che lui stesso definì "il gol di una vita".


Dall'estate successiva, cominciano i casi. Prima parte il capitano, Thierry Henry, dopo otto anni con la maglia dei Gunners: nel Giugno 2007, viene ceduto per 24 milioni di euro al Barcellona. Come spiegherà Henry più tardi, la dipartita di Dein (vice-presidente della squadra finché Henry rimane a Londra) e la continua incertezza sul futuro di Wenger lo fanno partire, facendogli affermare addirittura che la sua presenza e l'esser stato il capitano di lungo corso all'Arsenal fossero anche un peso per tutto il team. Parte anche Juan Antonio Reyes, pagato 14 milioni dal Siviglia nel 2004 e dato via in prestito al Real Madrid, pur di liberarsene: il motivo è nei contrasti con Wenger, che porteranno a venderlo definitivamente l'estate successiva all'Atletico Madrid, per otto milioni di euro.
Intanto, l'Arsenal non decolla nella prima stagione del post-Henry e l'estate successiva partono altri pezzi importanti della storia recente dei biancorossi: Flamini va via a parametro zero per andare al Milan e Hleb, preso a 15 milioni di euro dallo Stoccarda nel 2005 e rivenduto alla stessa cifra al Barcellona nel Luglio del 2008. Robin, nel frattempo, guadagna il posto da prima punta titolare (dopo la partenza di Henry) e si conferma come il miglior marcatore del 2008/2009 in tutte le competizioni con 20 gol, dopo i soli nove della stagione precedente.
Ma se le cose vanno bene per lui, non altrettanto si può dire per l'Arsenal: i Gunners continuano a vivacchiare, raggiungendo i soliti piazzamenti, ma mostrando evidenti limiti caratteriali nei momenti decisivi e così la bacheca rimane impolverata dalle parti del nord di Londra. E nell'estate 2009 si assiste all'ennesima fuga, stavolta doppia: Emmanuel Adebayor e Kolo Tourè, due pedine fondamentali nello scacchiere di Wenger, si trasferiscono al Manchester City dei nuovi proprietari del Qatar, per una somma totale di poco più di 50 milioni di euro. Se per Adebayor il motivo del trasferimento è nell'ambizione ed in un ingaggio ben nutrito, oltre che alla conclusione del dualismo proprio con Van Persie, per Tourè la richiesta parte da un alterco con Gallas, suo compagno di difesa in maglia Arsenal. Una richiesta prima rifiutata dal "board" del club, poi rivista di fronte all'enorme somma offerta dai Citizens di Manchester.
L'Arsenal continua a perdere pezzi, ma la squadra cresce un filo di rendimento e permette ai Gunners di passare una tranquilla stagione 2009/2010 e di arrivare in finale di Carling Cup nell'anno successivo: il pasticcio di Koscielny e Szczęsny negli ultimi minuti consente a Martins di segnare il gol del 2-1 che regala il successo al Birmingham City, lasciando la bacheca dei Gunners vuota, con l'ultimo trofeo risalente al 2005. Un'eternità. Nonostante i gol di Van Persie, che finisce queste due stagioni con 10 e 22 gol rispettivamente. Oltretutto, la partenza di Adebayor ha permesso di rinegoziare il contratto con l'Arsenal, allungandolo alla scadenza di Giugno del 2013 nell'estate del 2009. Ciò nonostante, le cose per il "north-London club" non migliorano.
Nell'estate del 2011, a partire è l'ennesimo capitano: tocca a Cesc Fabregas salutare, concretizzando quello che era il suo desiderio ogni volta che si presentava l'estate, ovvero tornare a Barcellona. Il catalano, arrivato all'Arsenal gratis nel 2003, se ne va per la "modica" cifra di 45 milioni di euro: indubbiamente i Gunners interpretano alla perfezione l'ABC del calcio mercato, ma è l'ennesima partenza da Londra e non è sicuramente una di quelle che passano sotto silenzio, specie se si parla di un fenomeno come il buon Cesc. L'aria non migliora di certo quando anche Samir Nasri, francese di origine algerine dal talento sopraffino, chiede di essere ceduto, sfruttando il fatto che va a scadenza nel Giugno 2012; alla fine, è ancora il Manchester City a riempire le casse dell'Arsenal, con ben 32 milioni di euro che perfezionano l'affare che porta il francese in maglia azzurra. Per essere totalmente soddisfatto, i Citizens rilevano anche Clichy per la fascia sinistra con nove milioni di euro: una razzia infinita.
Certo, l'Arsenal spende parecchi di quei soldi, comprando Gervinho e Oxlade-Chamberlain. Nell'ultimo giorno di mercato inglese, i Gunners si sbizzarriscono, acquisendo anche André Santos, Mertesacker ed Arteta: tutti buoni giocatori, ma nessuno di loro è stato mai decisivo in questa stagione o può esserlo nella prossima. E così l'Arsenal passa l'ennesima stagione di transizione, con un terzo posto in campionato (a 20 punti dalla vetta..) ed una precoce eliminazione in Champions, agli ottavi, per mano del Milan.


Kolo Touré, 31 anni, ed Emmanuel Adebayor, 28, con la maglia del City contro l'Arsenal.



A questo punto, Van Persie - come si può notare - è solo l'ennesimo pezzo da novanta che punta i piedi e se ne vuole andare; lo ha annunciato prematuramente verso la fine dell'ultimo campionato, lasciando così cavalcare le voci del mondo pallonaro dei medio, che lo volevano vicino alla Juventus, al Manchester City, ma sopratutto al Manchester United, dove formerebbe una coppia esplosiva con Wayne Rooney. Sicuramente l'olandese è una pedina importantissima, visti i suoi 37 gol stagionali durante quest'ultima annata, ma l'Arsenal non è nuovo a queste vicende e tenterà di andare avanti. Lo dimostrano gli acquisti, già portati a termine, di Olivier Giroud, promettente attaccante del Montpellier campione di Francia, e di Lukas Podolski, giocatore tedesco del Colonia, già "scottatosi" nel grande calcio con la maglia del Bayern Monaco. Ma anche qui la domanda è la stessa: riusciranno a sopperire alle partenze? Partirà qualcun'altro? E coloro che arriveranno riusciranno a regalare qualche gioia concreta ai tifosi dell'Arsenal? O si passerà l'ennesima stagione a vivacchiare, a tirare a campare, sperando che qualcuno abbia qualche defezione sulla strada dei Gunners? Chissà. Intanto, Wenger è sempre più a rischio ogni stagione che passa; la stagione degli "invincibili" è passata da un po' e l'ennesima telenovela made in London potrebbe aver esaurito il suo entusiasmo.


Robin Van Persie, 28 anni, anche lui incerto sul suo futuro.

27.7.12

ROAD TO JAPAN: Hisashi Jogo.

Rieccoci qui, con la mia rubrica sul calcio giapponese e sui prospetti che questo mondo propone. Sarebbe troppo facile parlare di uno degli "eroi" (passatemi il termine) che ieri ha portato a termine l'impresa di battere la Spagna U-23, che presentava nei suoi ranghi tre campioni d'Europa come Juan Mata, Jordi Alba e Javi Martinez, oltre che a elementi interessanti come Adrian Lopez, Isco, De Gea o Rodrigo. Insomma, un match fantastico, ma oggi parlerò di un ragazzo che non gioca neanche nella massima divisione giapponese. O meglio, ci era arrivato l'anno scorso, ma è poi retrocesso con la sua squadra, di cui è attualmente capitano, numero 10 e leader indiscusso. Parlo di Hisashi Jogo, giocatore dell'Avispa Fukuoka, militante nella J. League Division 2.

SCHEDA
Nome e cognome: Hisashi Jogo
Data di nascita: 16 Aprile 1986
Altezza: 1.83
Ruolo: Centrocampista offensivo, seconda punta
Squadra: Avispa Fukuoka (2005-?)



STORIA DI UNA STELLA
Quando ti chiami "Jogo" di cognome, è difficile che la tua vita non s'incontri inevitabilmente con il calcio. Difatti, Hisashi nasce in quel di Kurume, nella prefettura di Fukuoka, situata nelle isole Kyushu, le più profonde a livello di latitudine per il Giappone. Il ragazzo, come molti altri prospetti giapponesi, comincia a calcare i campi professionistici con la squadra della sua regione, l'Avispa Fukuoka, che lo sceglie dalla Kunimi High School, dove Jogo dispuita nel 2003 anche due partite. E pensare che la squadra di quella scuola aveva anche raggiunto, pochi anni prima, il titolo di campioni nazionali.
Comunque, Jogo comincia ad allenarsi con l'Avispa Fukuoka, nonostante abbia anche un promettente passato da giavellottista; il primo anno da pro, il 2005, lo vede in campo solo due volte, ma avendo solo 19 anni, è giusto che faccia esperienza gradualmente in seconda divisione. L'anno dopo le presenze salgono a 25 in campionato, ma stavolta nella prima divisione e condite da ben quattro gol; Hisashi ha dei problemi fisici l'anno successivo e le "caps" in campo si abbassano a 18, con due gol nell'Avispa che tenta la risalita diverse volte negli anni che passano. 
La prima svolta arriva nel 2008: l'Avispa vuole puntare alla risalita in modo serio e così affida le chiavi della manovra offensiva a Jogo, consegnandogli la maglia numero 10. Per Jogo arrivano due stagioni positive, con 14 marcature, ma l'Avispa delude sia nel 2008 che nel 2009, mancando in entrambi i casi la promozione.
La seconda svolta arriva nel 2010: Yoshiyuki Shinoda, che ha preso in mano la squadra a metà del 2008, mette a punto un sistema di gioco molto offensivo, che fa risaltare le caratteristiche dei suoi migliori interpreti, e dà molto spazio a giovani locali, presi dalle università delle isole Kyushu; non ci vuole molto prima che Jogo cominci a farsi notare. Nonostante il solo punto raccolto sui 15 disponibili nelle prime cinque partite, la squadra poi si riprende e vola, tanto da vincere 17 delle 25 partite successive: così l'Avispa torna in J. League 1 dopo cinque anni e Jogo, sebbene infortunato per la prima parte di stagione, si fa spazio nell'universo calcistico giapponese, dopo le 9 reti con le quali contribuisce alla cavalcata delle "vespe".
Nel 2011, in una stagione deludente per l'Avispa (che retrocede con diverse giornate d'anticipo), Hisashi riesce a brillare in qualche maniera, segnando 7 reti nella sua seconda annata in J1. Il problema è che la squadra non lo segue e solo verso la fine del campionato si riprende, ma ormai è troppo tardi: l'ascensore torna giù per le vespe di Fukuoka, ma ciò nonostante Jogo decide di rimanere e gli viene affidata anche la fascia di capitano.
Il 2012 è storia recente: Jogo è ormai maturato ed è anche troppo forte per la seconda categoria giapponese, tanto da risultare - fino ad ora - uno dei giocatori più decisivi, sebbene l'Avispa Fukuoka non sia neanche lontanamente vicino alla zona promozione della J2.

CARATTERISTICHE TECNICHE
Centrocampista offensivo, è chiaramente più adatto a questo ruolo che a quello di attaccante. Certo, il ragazzo può adattarsi in situazione d'emergenza, ma non è uomo d'area di rigore, bensì un giocatore a cui piace più fare l'assist che i gol, a cui piace più partire da lontano che stare fermo nei 16 metri finali ad aspettare il pallone. Può essere utilizzato nel 4-4-2, ma la sua collocazione naturale è il trequartista offensivo in un 4-2-3-1 o in un 4-4-1-1; inoltre, Jogo è dotato di un genio innato, che gli fa pensare anche cose che gli altri calciatori non tentano, come quella esposta nel video che trovato qui sotto. Oltretutto, è dotato anche di un discreto colpo di testa.



STATISTICHE (in tutte le competizioni stagionali, comprese la J. League Cup e la Emperor's Cup)
2005 (J2) - Avispa Fukuoka: 2 presenze, 0 gol
2006 (J1) - Avispa Fukuoka: 31 presenze, 4 gol
2007 (J2) - Avispa Fukuoka: 18 presenze, 2 gol
2008 (J2) - Avispa Fukuoka: 28 presenze, 2 gol
2009 (J2) - Avispa Fukuoka: 39 presenze, 5 gol
2010 (J2) - Avispa Fukuoka: 24 presenze, 9 gol
2011 (J1) - Avispa Fukuoka: 33 presenze, 7 gol
2012 (J2) - Avispa Fukuoka: 25 presenze, 9 gol (in corso)

*J1 = J. League Division 1
J2 = J. League Division 2

NAZIONALE
Il suo rapporto con la nazionale non è proficuo, difatti non è stato ancora convocato con la maglia giapponese indosso. Chiaro che l'aver militato per lo più in J2 non lo fa sembrare un prodotto appetibile, ma il ragazzo in realtà sembrerebbe adattissimo a fare il ricambio per Keisuke Honda, che ogni tanto ha avuto a che fare con gli infortuni e che avrebbe un gran bisogno di un giocatore in grado di sostituirlo in sua essenza. E Jogo sembra essere proprio il più adatto, grazie alle sue caratteristiche tecniche e a quel pizzico di genio che lo contraddistingue. Per lui, in compenso, ci sono state alcune convocazioni con l'U-20 giapponese.

LA SQUADRA PER LUI
Ci sarebbero tante squadre che hanno bisogno di un talento così imprevedibile ed in ascesa: il suo valore, secondo uno dei più completi siti di mercato, è sui 500mila euro. Una spesa che qualunque club italiano potrebbe permettersi, anche in B, sebbene nella serie cadetta vi sia questa inutile regola che vieta di prendere qualsiasi extracomunitario si voglia. In A, il Chievo sarebbe una squadra adatta in cui crescere e che necessitava (almeno fino a qualche giorno fa) di un buon trequartista. Vedremo se sarà fortunato di trovare gloria anche altrove o se rimarrà a Fukuoka, dove comunque il ragazzo si trova bene.


23.7.12

Un film già visto.


Negli ultimi anni, è diventato un classico di questo mondo calcistico pieno di (petrol)dollari: l'equazione soldi = successi sta prendendo sempre più piede nel mondo sportivo ed è sopratutto il pallone rotondo a non esimersi da questa possibile accoppiata. A dargli il via erano stati i soldi dei vari proprietari delle squadre calcistiche del mondo, alcune in grado di spendere grandi cifre per giocatori sulla cresta dell'onda: chi si scorda i 100 miliardi di lire sborsati dall'Inter di Moratti per avere Christian Vieri dalla Lazio nel 1999? Oppure, qualcuno si è dimenticato dei 150 miliardi di lire spesi dal Real Madrid nell'estate del 2001 per portare Zinedine Zidane da Torino, sponda bianconera, ai blancos? Certo che no.
E la vicenda del passaggio di Ibrahimovic e Thiago Silva non ha fatto altro che far pensare a queste follie economiche. Per molti politici francesi, in un periodo di crisi e di austerità forzata, le cifre di questo doppio trasferimento sono state definite "indecenti". Non a torto, ma va detto che il calcio è un business: immettere sul mercato somme simili in un momento di crisi mondiale non è certo illegale, ma è sicuramente immorale. Ma non bisogna neanche sembrare ingenui: non è la prima volta che viene spesa una cifra così importante e non sarà neanche l'ultima: basta dare un'occhiata alla storia del calciomercato degli ultimi anni..


Zinedine Zidane (40 anni) ai tempi del suo trasferimento dalla Juventus al Real Madrid.



Il rapporto tra soldi spesi in fase di mercato e successi alla fine della stagione non è sempre una garanzia, un'equazione perfetta; anzi, a volte può succedere che i soldi non portino ai risultati sperati oppure che i soldi non ci siano proprio e che l'enorme somma di denaro in arrivo è solo una gran farsa.
Vi sono casi di successo derivato dai soldi: non mi soffermo sui trasferimenti in sede di calciomercato da parte di potenze come Real Madrid, Barcellona, Bayern Monaco o Manchester United: queste squadre possono permettersi certe spese perché sono supportate da uno stadio di proprietà, da ricavi più ingenti rispetto a tante altre compagini nel mondo grazie ad un pubblico appassionato (il Bayern ha già finito gli abbonamenti da una decina di giorni..), ma sopratutto perché supportate da un marketing che non ha precedenti altrove e che porta molti soldi nelle casse di queste super-potenze del calcio.
Basti pensare al Chelsea, comprato da Abramovich nel 2003: prima di quella data, il Chelsea era una società di media classifica nel panorama inglese, nonostante negli ultimi anni fosse uscita allo scoperto grazie alla gestione italiana, prima di Vialli e poi di Ranieri. Dopo un'epoca di pochi successi negli anni '60, la rinascita era stata possibile grazie ai successi ottenuti sotto la guida dell'ex attaccante di Sampdoria e Juventus. Con Abramovich, cominciano le spese folli: nella sua prima estate come presidente, arrivano Glen Johnson, Geremi, Bridge, Duff, Joe Cole, Veron, Mutu, Crespo, Parker e altri per la cifra totale di ben 121 milioni di sterline, di fronte a delle entrate di quel primo calciomercato di ben 500mila sterline.. nonostante i tanti soldi spesi, al primo anno non arrivò nessun trofeo; anzi, la delusione fu doppia, con il secondo posto dietro l'invincibile Arsenal di Wenger e la semifinale persa contro il Monaco in Champions League. Esonerato Ranieri, arrivò Mourinho con tutti i successi che conosciamo: due Premier League, due Coppe di Lega, una Charity Shield ed una F.A. Cup. L'importantissima coppa d'Inghilterra è stata nuovamente conquistata anche sotto la gestione Hiddink e durante quella di Carlo Ancelotti, che in due anni di reggenza al Chelsea ha portato a casa anche una Premier League ed una Charity Shield. 
Ma il sogno di Roman Abramovich è stato sempre uno: la Champions League. Ci è arrivato vicino in molte occasioni, con la finale di Mosca del 2008 ed il rigore sbagliato da Terry, scivolando sul prato bagnato del Luznhiki. Per non parlare delle tre semifinali perse (due contro il Liverpool ed una contro il Barcellona) tra il 2005 ed il 2009; insomma, sembrava una maledizione, nonostante i milioni di euro spesi negli anni per comprare i vari Torres, Shevchenko, Essien e Drogba. Nulla sembrava possibile. Invece, proprio nella stagione che sembrava essere fallimentare dopo il regno di André Villas-Boas, Roberto Di Matteo ha trovato il modo di far felice il proprio "chief" nella maniera più pazzesca che si potesse immaginare: semifinale con il Barcellona passata con una decina di tiri (neanche tutti in porta), finale sofferta contro il Bayern a Monaco di Baviera e vinta ai rigori con un cuore (ed una fortuna) straordinari.


Un felicissimo Roman Abramovich (45 anni) ha finalmente conquistato la Champions.



Quindi in fondo, i soldi portano risultati. Lo stesso esempio lo possono portare altre due realtà: la prima è quella del Manchester City. I "Citizens", la metà meno famosa dell'universo pallonaro di Manchester, non riuscivano quasi mai ad avere la meglio sui Red Devils di Sir Alex Ferguson e lo United ha portato a casa maree di trofei, mentre il City faceva l'ascensore (sopratutto negli anni '90) tra Premier League e First Division, giocando per una stagione persino in Second Division. Ma ciò non è contato nulla quando poi sono arrivati i nuovi proprietari: nel 2007, arriva Thaksin Shinawatra, business-man thailandese che compra la squadra 81 milioni di sterline; con lui, arrivano Rolando Bianchi, Petrov, Corluka, Elano, Caicedo e Bojinov ed in panchina viene preso Sven-Goran Eriksson. I risultati non saranno esaltanti: un nono posto in campionato, poco o niente nelle coppe nazionali. A quel punto, complici anche disaccordi con la guida tecnica, Shinawatra decide di cedere il Manchester City dopo appena una stagione, nella quale intanto il Manchester United ha vinto la Champions League e la Premier. Cede la proprietà della squadra allo Abu Dhabi United Group, capeggiato da Khaldoon Mubarak (eletto nuovo presidente) e comprato da questo conglomerato industriale per ben 200 milioni di sterline: una fortuna. 
Non basta: quell'anno arrivano Jo, Kompany, Wright-Phillips, Bellamy, De Jong, Bridge e sopratutto Robinho dal Real Madrid. Anche qui, i risultati scarseggiano, visto il deludente decimo posto in campionato, parzialmente riscattato da un buon cammino europeo in Coppa UEFA, giunto fino ai quarti. Con l'arrivo anche di Roberto Mancini alla guida tecnica, dal Dicembre 2009, la squadra ha fatto il salto di qualità necessario, possibile anche grazie ad altri acquisti come quelli di Tevez, Dzeko, Silva, Balotelli (solo per fare alcuni nomi) ed alle maturazioni di Richards e Hart: nel 2011 è arrivata la vittoria in F.A. Cup, quest'anno quella in Premier League, nel più incredibile finale della storia della competizione, proprio ai danni degli odiati cugini dello United. Certo, a livello europeo il City deve ancora fare il salto di qualità, rivelando così ancora l'impossibilità da parte di Mancini di fare buone figure in Europa: un difetto, per altro, già palesato ai tempi dell'Inter. Vedremo se si migliorerà anche sotto questo punto di vista.
L'altro esempio che porto è un esempio "in fieri" da tempo relativamente minore: è quello del Malaga. La società andalusa venne rilevata nel 2006 dall'ex presidente del Real Madrid, Fernando Sanz, senza però grossi risultati; la svolta arriva poi nel Giugno del 2010, quando il Malaga viene comprato da Abdullah Al Qatari, investitore del Qatar con i famosi "petroldollari" a sostenerlo. Il Malaga non ha mai avuto una grandissima storia, è sempre stata una squadra a cavallo tra la Liga e la Segunda Division: anzi, nel 199?, il Club Deportivo Malaga si fonde con l'Atletico Malagueno (la squadra delle riserve) e diventa il Malaga Club de Futbol, costruendo la sua storia in maniera diversa dal club precedente, seppur simile per colori e basi della propria tradizione calcistica.
Dall'acquisto di Al Thani, la squadra ha cominciato a comprare giocatori a costi e prezzi ben superiori alla precedente proprietà; la prima mossa che ha dato una decisa sterzata è stata l'ingaggio di Manuel Pellegrini, reduce da un'esperienza non felice al Real Madrid. Il tecnico cileno, famoso per i suoi magici trascorsi al Villareal, ha reso il Malaga una buona squadra; se poi ci aggiungiamo gli acquisti di Maresca, Demichelis, Sergio Asenjo, ma sopratutto di Julio Baptista (decisivo nel calcio spagnolo, sulla falsariga di Ibra nella Serie A), la squadra ha cambiato decisamente registro. Ultimo alla fine del girone d'andata, il Malaga si salva a suon di risultati utili consecutivi e di partite straordinarie; a quel punto, l'estate successiva si punta più in alto, comprando anche Van Nistelrooy, Nacho Monreal, Mathijsen, Sergio Sanchez, Isco, Toulalan, Kameni e sopratutto Santi Cazorla. L'annata si conclude con un risultato sperato, ma comunque incredibile: la qualificazione in Champions League certifica il buon lavoro in quel di Malaga e la possibilità non di sorprendere Barcellona e Real Madrid, ma di potersi piazzare ogni anno dietro questo duo quasi irraggiungibile.


Kolarov (26 anni), David Silva (26), Yaya Touré (29) e J. Boateng (23): 
quattro acquisti del City nell'estate 2010.




Vi sono anche momenti in cui i soldi servono a poco. Basta dare un'occhiata alla Championship inglese, ovvero l'equivalente della nostra Serie B: parecchi fondi d'investimento stranieri si sono buttate su squadre di categoria inferiore nel calcio inglese, in modo da costruirvi qualcosa per poi portare queste realtà nella massima serie e raggiungerci, perché no, anche l'Europa. Ma niente da fare: i malesiani hanno comprato il Cardiff City, salvandolo dalla bancarotta e dall'amministrazione controllata, senza però riuscire a portarlo in Premier League, nonostante sia regolarmente ai play-off ogni anno; i thailandesi hanno messo piede a Leicester, portando anche Sven-Goran Eriksson, che però ha fallito anche in quest'ulteriore avventura; il Birmingham, invece, è stato da un gruppo di investimenti di Hong-Kong, portandoli in Europa ma anche in Championship.. insomma, vicende contraddistinte da luci ed ombre non tipiche di chi porta molti soldi e, secondo alcuni, molti successi.
C'è poi chi, diciamolo volgarmente, "rimane fregato": è successo al Racing Santander, comprato da un investitore indiano - tale Syed Ali Ashan - nel Gennaio 2011, voglioso di rendere il Racing una delle squadre più potenti di Spagna.. salvo poi scappare qualche mese dopo insieme a tutto il CDA della società. Una vicenda che ha del grottesco e che dimostra come non sempre il benefattore, "the man with the money" è la soluzione a tutto.


Hector Cuper (57 anni), una brutta esperienza in quel di Santander.



Ora c'è l'avventura del PSG. Che ha portato già diversi giocatori al capezzale di Leonardo ed Ancelotti: Lavezzi, Pastore, Sirigu, Alex, Lugano, Menez, tutti pronti a vincere tutto con la casacca della squadra di Parigi. A loro, si sono aggiunti i due extra-terresti, Zlatan Ibrahimovic e Thiago Silva. Il buon vecchio Ibra ha avuto il coraggio - sì, coraggio - di definire la Ligue 1 un campionato in ascesa. Di certo, come la Germania nel 2006, l'organizzazione degli Europei del 2016 in Francia e la conseguente rimodernizzazione degli stadi porterà qualche vantaggio ai club francesi. Ma definire il calcio francese in crescita solo perché il PSG compra tutto il mondo calcistico pare leggermente fuori contesto, un'impossibile previsione da realizzare. Per altro, chissà se questo squadrone vincerà la Champions: sicuramente dominerà la Ligue 1 per diversi anni, a meno che il Monaco comprato dai russi non ritorni nella massima serie francese e dia filo da torcere ai parigini. O a meno che non esca "un altro Montpellier" sulla strada di Ibra e soci. Vedremo. Una cosa è certa: meglio attendere prima di sparare giudizi. I soldi sono sintomo di possibilità, non di certezze.


Un sorridente Zlatan Ibrahimovic (30 anni) all'ombra della Torre Eiffel.

16.7.12

Import-export.

Se c'è una squadra che sta economicamente bene in una crisi che non risparmia neanche il mondo pallonaro, quella compagine è senza dubbio l'Udinese di Gino Pozzo. In un mercato in cui girano pochissimi soldi, la squadra friulana ha raccolto un discreto gruzzolo: via Isla e Asamoah alla Juve (18.5 milioni per entrambe le comproprietà), via Handanovic all'Inter (per 11 milioni e la metà di Faraoni), ora in partenza ci sarebbero anche Armero e Cuadrado, sulla strada rispettivamente per la Torino bianconera e per Firenze. Insomma, nella stagione che riproporrà l'Udinese come rappresentante italiana ai preliminari di Champions League, il patron dei bianconeri ha deciso di incassare qualcosa come 30 milioni più la metà di un giocatore promettente come Davide Faraoni. E non è detto che sia finita, visto che i due colombiani sopracitati sono in partenza. L'unico arrivo da segnalare è il fantasista brasiliano Maicousel dal Botafogo.
Per quanti dubbi possa lasciare un modello del genere in una squadra che quest'anno dovrebbe cercare più di comprare che di vendere, in modo da passare il preliminare per la massima competizione europea, le operazioni dell'Udinese sono su questa falsa riga da diversi anni. Si prende un giocatore sconosciuto ai più, rilevato grazie alla rete di innumerevoli osservatori pagati dalla società friulana, e lo si fa maturare, giocare, fino a farlo diventare un prospetto interessante per il calcio mercato. In una piazza dove la passione c'è, ma non è travolgente come altrove, la famiglia Pozzo ha trovato il modo di sopravvivere attraverso le cessioni. Anche negli anni in cui c'è qualcosa di importante da giocarsi.
Aggiungete un altro elemento per la funzionalità di questo modello: la famiglia Pozzo non è proprietaria solo dell'Udinese, ma anche di altre due squadre in altri campionati. Difatti, dal 2009, il patron bianconero detiene la quota di maggioranza del Granada Club dé Futbol, squadra spagnola, e recentemente ha acquisito la proprietà del Watford Fottball Club, team inglese, dal Giugno di quest'anno. Un modo per testare i propri acquisti in altri campionati e capire se possono essere utili al club di riferimento in Italia: un modello così costruito difficilmente può crollare, anzi è destinato a durare all'infinito e a potenziarsi. Ma vediamone meglio la storia.

Giampaolo Pozzo, 71 anni: il creatore di un modello redditizio.


Giampaolo Pozzo diventa il presidente dell'Udinese nel Luglio del 1986, risultando adesso uno dei presidenti più longevi dell'intera Serie A. Decide di rilevare la società friulana nonostante la penalità inflitta all'Udinese per il calcio-scommesse: prima viene stabilita la retrocessione in Serie B per la stagione 1986/1987, poi la pena viene ridotta a nove punti di penalità da scontare nella Serie A dell'anno successivo. Inizia un periodo di ascensore tra A e B per la squadra bianconera: non basta comprare Collovati, Bertoni e Graziani per evitare la B con la penalizzazione sul groppone; ma l'anno dopo, l'Udinese torna subito in A. Nel 1990, nonostante gli acquisti dei giovani Abel Balbo e Nestor Sensini, l'Udinese retrocede nuovamente, stavolta all'ultima giornata. A gravare ulteriormente sulla situazione friulana, arrivano 5 punti di penalizzazione per la squadra e 5 anni di deferimento per Pozzo, accusato di aver contattato Calleri, il presidente della Lazio, minacciandolo se vi fosse stata la sconfitta della sua squadra per mano dei biancocelesti. Da quel momento, Pozzo non sarà più presidente dei friulani, ma solo il proprietario.
Nel 1990/1991, con la penalizzazione ad appesantirne la classifica, l'Udinese deve rinunciare alla promozione, salvo ottenerla l'anno successivo. Nel 1992/1993, l'Udinese si salva solo allo spareggio contro il Brescia, nonostante i 21 gol di Balbo; ceduto l'argentino alla Roma, i friulani retrocedono nuovamente l'anno dopo e a nulla servono i 14 gol di Marco Branca, preso per sostituire Balbo. Nel 1994/1995, l'Udinese risale nuovamente in Serie A per non lasciarla mai più: è l'ultimo anno di B e l'inizio di un modello che porterà solo fortune alla squadra friulana.


Oliver Bierhoff, 44 anni: uno dei tanti colpi made in Udinese degli anni '90.


Alla guida del club si installa Alberto Zaccheroni, giovane tecnico che appena salvato il Cosenza dalla Serie C nonostante una penalizzazione di nove punti che la squadra calabrese doveva scontare. Saranno tre anni proficui: nel primo arriva una salvezza tranquilla, nel secondo l'Udinese arriva quinta, guadagnandosi il diritto - per la prima volta nella sua lunga storia - di giocare la Coppa UEFA nella stagione successiva. Ma è nel 1997/1998 che arriva il vero capolavoro: il trio d'attacco Poggi-Amoroso-Bierhoff fa meraviglie, il tedesco segna 27 reti e l'Udinese arriva terza in campionato, piazzandosi dopo il duo che lottava per lo scudetto, quello composto dalla Juve di Lippi e dall'Inter di Simoni. Un'impresa. Aggiungiamoci anche la quasi-impresa contro l'Ajax in Coppa UEFA (sconfitta all'Amsterdam Arena per 1-0, vittoria per 2-1 al Friuli: l'Udinese esce per la regola dei gol in trasferta) ed il quadro, oltre che essere completo, è soddisfacente.
E' lì che Pozzo capisce che può cominciare a fare qualche soldo da questi exploit: nell'estate del 1998, Bierhoff, Helveg ed l'allenatore Zaccheroni si trasferiscono in blocco al Milan. Rimangono i fedelissimi Turci, Bertotto e Calori, per sostituire i partenti arrivano "El Pampa" Sosa ed il nuovo allenatore Francesco Guidolin, reduce da annate da sogno in quel di Vicenza, con tanto di vittoria in Coppa Italia nel 1997 e cammino trionfale nella Coppa delle Coppe dell'anno successivo. I risultati non cambiano: sesti in campionato, di nuovo qualificati per la Coppa UEFA e Marcio Amoroso capocannoniere con 22 reti.
Così, comincia una sorta di routine per la squadra friulana: si fanno buoni campionati, si cedono i pezzi migliori se arrivano offerte adeguate e si ricomincia da capo con i loro sostituti. Amoroso va al Parma per molti miliardi di lire, Muzzi è il suo sostituto ed in più arrivano un giovanissimo David Pizarro, Morgan De Sanctis e Stefano Fiore. Altro buon risultato: ottavo posto in campionato, ottavi di finale in Coppa UEFA e Fiore rivelazione del campionato, con tanto di convocazione in nazionale azzurra per l'Europeo del 2000 in Belgio e Olanda.
Nei due anni successivi, il meccanismo s'inceppa almeno sportivamente parlando: l'Udinese passa delle annate di transizione, fatica a trovare nuovi giovani e si succedono molti allenatori alla sua guida. Nell'estate del 2000, Appiah va al Parma, Locatelli va a Bologna; aggiungiamo il fatto che Poggi vada alla Roma durante il mercato invernale ed il gioco è fatto. Non bastano certo gli acquisti dei giovani Iaquinta e Pinzi; così, nel 2000/2001, un mesto dodicesimo posto e due allenatori (prima De Canio, poi Spalletti) segnano la stagione dell'Udinese; l'anno dopo va peggio. In estate si perdono vari pezzi: Giannichedda e Fiore vanno alla Lazio in un'operazione miliardaria, a Udine invece arrivano Di Michele e Almron. Nel 2001/2002, l'Udinese si salva a poche giornate dalla fine, dopo aver cambiato due allenatori (Hodgson e Ventura) ed aver rischiato la B. Ma lì arriva il definitivo salto di qualità.

Stefano Fiore, 37 anni: all'Udinese dal 1999 al 2001, finì anche in azzurro.


Nell'estate del 2002, la società richiama Luciano Spalletti, reduce da una salvezza ad Ancona in Serie B e che così bene aveva fatto l'anno precedente. Il tecnico toscano lancia definitivamente alcuni nomi che diventeranno protagonisti nel calcio italiano, come Pizarro, Jankulowski, Felipe, Kroldrup e Muntari, e proponendo un calcio offensivo. Nonostante la mancanza di un buon terminale offensivo, vista la partenza di Sosa e la scarsa forma di Jancker e Muzzi, l'Udinese finisce quinta e si qualifica nuovamente per la Coppa UEFA. Il secondo anno di Spalletti i risultati sono i medesimi: settimo posto ed altra qualificazione europea. Ma nel 2004/2005 arriva il capolavoro: in uno dei campionati più equilibrati di sempre (? squadre in ? punti!) e con l'aggiunta di Mauri, Di Michele e sopratutto Antonio Di Natale (nonostante la partenza di Jorgensen), la squadra centra l'obiettivo 4° posto, quello che dà accesso ai preliminari di Champions League, a scapito della Sampdoria. E' un traguardo importantissimo, che offre una possibilità straordinaria. Verrà però affrontata senza molti eroi di quell'impresa: Luciano Spalletti si siede sulla panchina giallorossa, Marek Jankulowski passa al Milan per 8 milioni di euro, Per Kroldrup viene ceduto all'Everton e David Pizarro si trasferisce all'Inter.
Il nuovo allenatore è Serse Cosmi, che ha portato il Genoa in A nella stagione passata, salvo poi annullamento del verdetto del campo per illeciti sportivi. All'Udinese, nell'estate del 2005, arrivano Zapata, Motta, Pepe e Candela e la squadra sembra essere votata più all'esperienza che alla freschezza dei giovani. Sarà la mossa che costringere la società friulana, nei due anni successivi, a campionati chiaroscuri. Nel frattempo, l'Udinese passa il preliminare di Champions contro lo Sporting Lisbona, salvo poi uscire nel girone con Barcellona, Panathinaikos e Werder Brema; in Coppa UEFA, la squadra arriva fino agli ottavi, quando viene poi eliminata dal Levski Sofia. Sono tre gli allenatori  che si succedono in quella stagione: Cosmi, Dominissini e Galeone, con quest'ultimo che verrà poi confermato per la stagione successiva.
Il 2006/2007 è un'altra stagione di transizione: altro decimo posto in campionato, altro cambio d'allenatore (Malesani subentra a Galeone) e continuano arrivare campioncini in erba come D'Agostino, Lukovic, Zapotocny, Sivok e Dossena. Nell'estate del 2007, si fa una grossa pulizia in quel di Udine: De Sanctis va al Siviglia, rescindendo il contratto con i friulani, Di Michele si è già trasferito al Torino passando da Palermo, Iaquinta passa alla Juventus per 11 milioni di euro, Muntari va al Portsmouth per 8.5 milioni di euro. Enormi plusvalenze con le quali si possono comprare nuovi giocatori da esporre in vetrina: ritorna Handanovic da un ottimo campionato a Rimini ed arrivano Candreva, Isla, Inler, Mesto, Floro Flores ma sopratutto Quagliarella, preso alle buste dalla Sampdoria per 8 milioni di euro. Con l'arrivo di Pasquale Marino, ex mister del Catania, l'Udinese torna a proporre un calcio offensivo per un paio d'anni ed arrivano i risultati: nel 2007/2008, l'Udinese arriva settima, conquistandosi nuovamente il diritto di partecipare alla Coppa UEFA; nella stagione successiva, la squadra si ripete, arrivando ancora settima e raggiungendo i quarti di finale della seconda competizione europea, nei quali viene sconfitta ancora dal Werder Brema. Nella squadra cominciano a vedersi anche i volti di Asamoah, Sanchez e Domizzi, mentre partono Dossena (al Liverpool per 10 milioni di euro) e Quagliarella (al Napoli per 16 milioni e l'altra metà di Domizzi). Insomma, l'Udinese continua ad incassare e a non perdere competitività. Ma qui Pozzo capisce che c'è bisogno di un ulteriore strumento per crescere ancora.


Vincenzo Iaquinta, 32 anni, segna un rigore nel preliminare
di Champions League del 2005 contro lo Sporting Lisbona.

Il patron della squadra friulana, nel Giugno del 2009, decide di comprare il Granada, squadra spagnola che milita nella Segunda Division B (terza divisione spagnola) e che versa in gravissime difficoltà finanziarie. Pozzo, che aveva tentato già di comprare parte delle quote dell'Espanyol di Barcellona, stabilisce una partnership con il club spagnolo: egli salva il club dal fallimento, in modo da farlo diventare una sorta di "Udinese B" per testare i giocatori più giovani o bisognosi di minutaggio. Sarà l'affare del secolo: molti non sanno quanti giocatori hanno vestito la maglia del Granada prima di vestire quella bianconera dell'Udinese. E' un metodo infallibile, come prestare un giocatore in Serie B, solo che di un altro campionato, permettendogli così di imparare un tipo di calcio diverso. Un'intuizione geniale.
In Italia, intanto, le cose non vanno benissimo: il 2009/2010 è una stagione tormentatissima per il club friulano. Nonostante i 29 gol di un Di Natale riscopertosi centravanti, l'Udinese staziona in zona retrocessione per tutta la stagione e la salvezza arriva solo a tre giornate dalla fine: i vari avvicendamenti tra Marino e De Biasi non hanno portato il club dove si sperava. In più, la dipartita dell'a.d. Pietro Leonardi ad inizio stagione è stato un duro colpo da mandare giù. Da segnalare gli arrivi di Basta e Cuadrado in Friuli; nel frattempo, il Granada, grazie sopratutto ai giocatori provenienti da Udine, vince la Segunda Division B e torna nella seconda categoria del calcio spagnolo dopo ben 22 anni.
Il 2010/2011 è l'anno che porta l'Udinese al top del calcio italiano. La mossa migliore dei Pozzo è quella di richiamare Francesco Guidolin, il tecnico che ha già allenato l'Udinese dal 1998 al 2000. Il tecnico veneto è reduce da un'ottima esperienza al Parma, con tanto di promozione e conseguente ottavo posto in Serie A, e ha voglia di misurarsi nuovamente in Friuli,. L'Udinese, come al solito, "non bada alle entrate": Pepe va alla Juve per un incasso totale di quasi 10 milioni di euro e D'Agostino vola a Firenze per 4.5; in arrivo, invece, ci sono Benatia per 500mila euro (!) dal Clermont, il ritorno di Pinzi dal Chievo e l'arrivo di Armero dal Palmeiras, nonché quelli di Ekstrand e Abdi. L'Udinese parte a fari spenti, prende molte batoste ad inizio campionato ed incassa quattro sconfitte nelle prime quattro giornate; da lì in poi, però, si vola e la squadra friulana mostra un gioco fantastico, che incanta tutta la Serie A. E' il tandem Di Natale-Sanchez a sancirne la forza, tanto da vincere il duello Champions per il quarto posto contro la Lazio: l'Udinese torna nella massima competizione europea dopo sei anni e lo fa meritatamente.
In quel di Granada, intanto, si ha di che festeggiare: la squadra, neo-promossa, arriva quinta in campionato e vince anche i play-off per salire in Liga. Tanto per fare un esempio: il capocannoniere di quella squadra è Alexandre Geijo, svizzero di origini spagnole di proprietà dei friuliani, che lo prestano al Granada nell'Ottobre del 2010; in Italia, il ragazzo aveva fatto 4 presenze e 0 gol, in Spagna fa 24 gol e porta la squadra in Liga. E' un'impresa che ha dello storico ed il patron Pozzo può solo sfregarsi le mani pensando a tutto ciò che potrà fare in estate.
E così arriviamo all'ultima stagione. L'Udinese continua a vendere senza problemi: porta a casa un affare milionario vendendo Alexis Sanchez al Barcellona per 37 milioni di euro; vende Zapata al Villareal per 9; infine, arriva anche il trasferimento di Inler al Napoli per 16 milioni di euro. Gino Pozzo incassa una fortuna e ne spende, come al solito, solo una parte, proprio nell'estate della Champions: arrivano Danilo dal Palmerias, Neuton dal Gremio (per 2 milioni di euro), Doubai dallo Young Boys, Torje dalla Dinamo Bucarest (per 7 milioni), Pereyra dal River Plate (per 2 milioni) e Fabbrini dall'Empoli. Danilo a parte, nessuno sarà un titolare fisso, quindi Guidolin dovrà affrontare una stagione molto impegnativa con una rosa praticamente dimezzata nelle sue potenzialità. Ma per il tecnico veneto non è un problema: l'Udinese affronta l'Arsenal nel preliminare di Champions, si batte con onore, ma esce per la troppa inesperienza in campo europeo di molti dei suoi protagonisti.
In campionato, la squadra mantiene un buon ritmo, nonostante l'impegno dell'Europa League, che l'Udinese porta avanti con grande serietà e dedizione, tanto da guadagnarsi il passaggio del turno. Ma se in Europa l'avventura finisce in Marzo negli ottavi di finale contro l'AZ Alkmaar, in campionato si vola e si fa un miracolo più grande dell'anno precedente: terzo posto (record della società) e nuova conquista del preliminare di Champions. Un altro miracolo firmato Udinese. E il Granada, in Liga, si salva all'ultima giornata e quest'anno avrà nei suoi ranghi proprio Torje e Floro Flores in prestito. Insomma, nulla di meglio.
L'ultimo mattoncino Pozzo l'ha messo il 29 Giugno: acquisto del Watford, club inglese che ha fra i suoi tifosi anche Elton John. E chissà che questo modello di import-export non crolli prima o poi. Io ne dubito fortemente, ma vedremo se il tempo mi sarà contro..

Francesco Guidolin, 56 anni, e Antonio Di Natale, 34: gli artefici di un miracolo.



14.7.12

UNDER THE SPOTLIGHT: Jordan Rhodes

Rieccoci nuovamente con la rubrica di metà mese del blog, ovvero "Under The Spotlight", l'appuntamento mensile che permette di capire quali sono i nuovi talenti che potrebbero sbocciare a breve nel panorama internazionale. Oggi la nostra attenzione si concentra sullo scenario britannico, in particolare sulla nPower Championship (equivalente alla nostra Serie B). Già, perché dalla prossima stagione questa categoria ospiterà l'Huddersfield Town, squadra che ha vinto i play-off della nPower League 1 e ha guadagnato perciò il diritto a disputare il torneo della categoria superiore 2012/2013. In questa squadra vi sono molti prospetti interessanti, ma la mia attenzione vuole concentrarsi su uno di loro in particolare: parlo di Jordan Rhodes, centravanti scozzese di 22 anni. Ammetto che l'idea non è tutta del mio sacco: quest'anno l'ho cominciato a seguire dopo una dritta durante "Mondo Gol", programma di SKY, nel quale Marco Cattaneo riportava una dritta datagli dal suo collega Paolo Ciarravano. Così parlava il giovane giornalista durante quella trasmissione di Novembre 2011: "Paolo mi ha consigliato di seguire tale Jordan Rhodes, centravanti dell'Huddersfield.. ha già fatto una ventina di gol e lui dice di farci attenzione". Perciò, seguiamo tale consiglio e scopriamo qualcosa in più sul ragazzo.

SCHEDA
Nome e cognome: Jordan Luke Rhodes
Data di nascita: 5 Febbraio 1990
Altezza: 1.88
Ruolo: Centravanti
Club: Huddersfield Town (2009-?)


STORIA
Jordan Rhodes nasce a Oldham, nella regione di Manchester. Si direbbe perciò inglese a tutti gli effetti, ma in realtà il ragazzo passa molto tempo con il padre, Andy Rhodes, anch'egli calciatore. Rhodes senior si trasferisce in Scozia proprio quando nasce suo figlio, che così ha modo di crescere sopratutto nella terra dell'Old Firm: insomma, Jordan si sente a tutti gli effetti scozzese, nonostante la sua carta d'identità dica ben altro. Inizia come portiere, seguendo le orme paterne, salvo poi convertirsi come centravanti: la sua fortuna deriva proprio dal cambio di ruolo, che gli permette di sbocciare come uomo d'area di rigore e trovare un posto nelle giovanili prima del Barnsley, poi dell'Ipswich Town, che lo compra per una cifra di circa 7000 euro. Allo stesso tempo, il padre entra nello staff dell'Ipswich, diventandone l'allenatore dei portieri; il figlio, nel frattempo, realizza caterve di gol nelle categorie giovanili, attirando l'attenzione della prima squadra. Dopo una prima stagione caratterizzata da numerosi infortuni, Rhodes esordisce nel mondo dei professionisti con la maglia dell'Ipswich nel 2007/2008, subentrando nel match contro il Burnley. Si pensa di prestarlo per fargli guadagnare esperienza e va in prestito "breve" (un prestito di tre mesi, forma di mercato diffusa in UK) all'Oxford United, con il quale gioca quattro partite a soli 17 anni nella Conference National (quinto livello del calcio inglese). Il prestito dura poco e così torna alla casa madre per giocare qualche partita: dieci presenze ed un gol in un anno e qualche mese con la maglia con cui è cresciuto. Ma è tempo di fare esperienza altrove.
Nel 2008/2009, Rhodes veste due maglie con fortune alterne. Da Settembre 2008 a Gennaio 2009 si trasferisce al Rochdale, con il quale mette piede in campo solo cinque volte, segnando comunque due gol; durante il mercato invernale, invece, arriva un ulteriore prestito, questa volta al Brentford. All'inizio, l'accordo prevede un prestito di un mese, che viene poi esteso fino alla fine della stagione: Rhodes comincia a far vedere quel che vale. Il ragazzo segna 7 gol in 14 partite, realizzando addirittura una tripletta in 29 minuti nella vittoria a domicilio sul campo dello Shrewsbury Town. Con questa "hat-trick", Rhodes stabilisce due record: è il giocatore più giovane ad aver realizzato una tripletta nella storia del club e, allo stesso tempo, è il primo a segnare una tripletta con il Brentford in campionato dopo 10 anni. Insomma, le potenzialità sembrano fuoriuscire e sono sotto gli occhi di tutti.
La svolta arriva nell'estate del 2009. L'Huddersfield Town ed il suo nuovo manager Lee Clark decidono di tesserarlo e sarà una mossa decisiva: il club vorrebbe tentare la scalata dalla League One alla Championship, ma gli manca un'arma letale davanti. Rhodes sarà l'uomo giusto al momento giusto: lo scozzese parte bene e segna sei gol nelle prime sei giornate di campionato; a fine stagione, i gol saranno 23 in 53 partite. Una media-gol niente male, che però non consente all'Huddersfield di salire in Championship, vista la sconfitta nella semifinale dei play-off contro il Millwall. L'anno successivo, sale il rendimento del centravanti scozzese (22 gol in 48 partite), ma l'esito negativo è dietro l'angolo per il club: di nuovo ai play-off, l'Huddersfield batte il Bournemouth in semifinale solo ai rigori, ma perde nettamente la finale, per 3-0, contro il Peterborough United.
L'ultima stagione è quella della definitiva consacrazione. Rhodes è letale nel 2011/2012, tanto da segnare 40 gol in 45 partite (!) e vincere con largo anticipo il titolo di capocannoniere della League One con 36 reti. Per rendere l'idea, il secondo classificato nella speciale graduatoria dei bomber raggiunge "solo" quota 29..
E se per Rhodes sarà la stagione della crescita, anche l'Huddersfield raggiungerà finalmente il suo obiettivo: arrivato di nuovo ai play-off, il club vince la semifinale contro il Milton Keynes Dons e vince ai rigori la finale contro lo stra-favorito Sheffield United. Adesso cosa attende il centravanti scozzese? Non so, onestamente. Reading e Newcastle sono già sulle sue tracce, chissà se lo vedremo in Premier League.

CARATTERISTICHE TECNICHE
Jordan Rhodes è, sostanzialmente, il prototipo del centravanti perfetto: buon tiro con il suo destro, ottimo colpo di testa grazie ad un'altezza significativa.. ma ciò che più colpisce dello scozzese è la capacità di essere SEMPRE al centro dell'azione. Quando si sviluppa la costruzione del gioco, Rhodes sa sempre dove la palla dovrebbe capitare, sopratutto se quest'ultima finisce in area. E' inoltre molto bravo nel tenere la palla e permettere alla propria squadra di salire. Insomma, il centravanti secondo manuale. Il video che troverete alla fine dell'articolo vi permetterà di constatarlo tranquillamente.

STATISTICHE (compresi presenze e gol anche nelle coppe)
2007/2008 - Ipswich Town: 8 presenze, 1 gol
2007 - Oxford United: 4 presenze, 0 gol
2008 - Ipswich Town: 2 presenze, 0 gol
2008/2009 - Rochdale: 5 presenze, 2 gol
2009 - Brentford: 14 presenze, 7 gol
2009/2010 - Huddersfield Town: 53 presenze, 23 gol
2010/2011 - Huddersfield Town: 48 presenze, 22 gol
2011/2012 - Huddersfield Town: 45 presenze, 40 gol

NAZIONALE
Come detto, Rhodes gioca per la nazionale scozzese. Ha avuto l'opportunità di giocare nelle squadre giovanili inglesi quando era nelle giovanili dell'Ipswich Town, ma s'infortunò e non ebbe l'opportunità di far parte di queste squadre.  Così la sua carriera internazionale si è risolta con la chiamata dell'Under 21 scozzese, con la quale Rhodes ha realizzato 8 gol in 8 match, divenendone il cannoniere di tutti i tempi. Non c'è voluto molto perché la nazionale maggiore notasse il suo talento e tentasse di chiamarlo: il C.T. Levein lo chiama per l'ultimo turno di qualificazione ad Euro 2012 nel Novembre 2011, esordendo nella partita di Larnaca contro Cipro. Da lì, nessun altra presenza, ma il futuro della nazionale è suo senza alcun dubbio. Chissà se - come Bale e Giggs prima di lui - diventi motivo di rammarico per la nazionale inglese.. Intanto, potrebbe essere chiamato per le Olimpiadi di Londra, se le cattive condizioni di Daniel Sturridge fossero confermate.

LA SQUADRA PER LUI
Come detto precedentemente, il Newcastle United ed il neo-promosso Reading sono sulle sue tracce. Volendo dare uno sguardo al panorama italiano, la Roma di Zeman sarebbe perfetta per il ragazzo, che avrebbe una fantastica capacità di dare profondità al gioco della squadra giallorossa; altrimenti, anche la Fiorentina del nuovo corso di Montella necessita di un centravanti vero e proprio, visto che nell'ultima stagione la viola è stata spesso costretta ad usare Cerci o Jovetic come centravanti. Personalmente credo che Rhodes farebbe bene a fare una stagione in League One e poi a spiccare il volo nel calcio che conta: l'Huddersfield è una buona squadra e lo scozzese potrebbe fare tranquillamente 30 gol in questa stagione. Lo attenderò nei prossimi anni, sarà un grande.


11.7.12

Smobilitazione o rinascita?

C'è un fenomeno nuovo nel calcio italiano. Un fenomeno che si muove sotterraneo e che trova nella Serie A l'epicentro: parlo della nuova aria che si respira nel nostro mondo pallonaro. E' notizia di oggi il tentativo del Paris Saint-Germain di comprare Thiago Silva ed Ibrahimovic dal Milan, per la cifra totale di 60 milioni di euro: sarebbe l'ennesimo colpo dei parigini (che hanno già preso Lavezzi) e una delle tante partenze che caratterizza negli ultimi anni il nostro calcio. Ma è davvero così strano? Da quando siamo diventati una patria di esportatori, quando negli anni '90 compravano campioni su campioni? Ed è un fenomeno irreversibile?

Innanzitutto, va illustrata la situazione: da un paio d'anni, il calcio italiano soffre molto sul mercato; da qualcuno in più, prende illustri mazzate in Europa, se escludiamo l'Inter che vinse la Champions nel 2010 e qualche miracolo isolato, come la Fiorentina che si arrese solo nelle semifinali della Coppa UEFA 2007/2008 o il Napoli dell'ultima stagione che, per il suo potenziale, ha fatto vedere buone cose e si è dovuto inchinare solamente alla squadra che sarebbe diventata campione d'Europa, ovvero il Chelsea di Roberto Di Matteo.
Per il resto, il panorama è desolante: escludendo il caso dei nerazzurri, la media dei risultati delle italiane in Europa è deludente. Sul bilancio, pesa sopratutto il rendimento delle nostre squadre in Europa League, competizione che dà meno soldi, meno ricavi e - quindi - merita meno attenzione. Ragionamento poco romantico e molto concreto; ma con il fair-play finanziario che bussa alle porte, è inutile fare i sentimentalismi. La UEFA dovrebbe porre rimedio a tutto ciò, ma intanto le italiane scivolano nei ranking europei ed il sorpasso della Germania è cosa fatta da un anno, tanto che le tedesche in Champions saranno quattro nella prossima stagione, mentre le italiane saranno tre. Ovvio che bisognerà attendere l'esito dei preliminari per giudicare, ma intanto la Germania ci ha surclassato negli ultimi anni: tre finali per le squadre teutoniche (due di Champions per il Bayern ed una per il Werder Brema nell'ultima edizione della vecchia Coppa UEFA), una per le squadre italiane. Vero che le squadre tedesche le hanno perse tutte, ma andando a spulciare le squadre che più sono andate avanti nelle due competizioni europee, si capisce come mai il ranking italiano crolli: negli ultimi cinque anni, lo Schalke 04 ha raggiunto una semifinale di Champions, mentre il Bayern e l'Amburgo (due volte) sono arrivate in semifinale nell'altra competizione europea; per le italiane, solo Inter e Fiorentina (rispettivamente, in Champions ed in Coppa UEFA) sono riuscite a farcela. Insomma, una debacle.

L'Inter di Mourinho conquista la Champions League 2009/2010: 
l'ultimo trofeo di una squadra italiana in Europa.


Viene da chiedersi dove nasca questo divario. Eppure, negli anni '90, il calcio italiano regnava. Anzi, sfogliando qualche almanacco del calcio, ci si accorge che il divario era netto e si poteva afferamare che la Serie A era il campionato più competitivo del mondo. Basta guardare i titoli vinti dalle squadre italiane in quegli anni: in Champions, Milan (2) e Juventus vincono la Champions League, mentre la Sampdoria, gli stessi rossoneri (altre due volte) ed i bianconeri di Torino (due volte anche loro) raggiungono la finale; va ancora meglio in Coppa UEFA, dove la Juventus (2), il Parma (2) e sopratutto l'Inter (3) vincono il trofeo, con Fiorentina, Juventus, Torino, Inter e Lazio che raggiungono la finale senza trionfare. Considerando anche la defunta Coppa della Coppe (allora riservata ai vincitori delle Coppe nazionali), il bilancio cresce ulteriormente: Sampdoria, Lazio e Parma ne vincono una, con i gialloblu che perdono un'altra finale. Un trionfo, proprio mentre le squadre tedesche fanno molta più fatica, tanta da portare a casa "solo" una Champions con il Borussia Dortmund, due Coppe UEFA con Schalke 04 e Bayern Monaco ed una Coppa delle Coppe con il Werder. Il risultato è impietoso: 13 trofei a 4. Un conto ribaltatosi negli anni Duemila: 3 a 1 per i trofei, ma i tedeschi hanno dalla loro le sei finali contro le cinque delle nostre squadre.
Il confronto viene spontaneo con la Germania perché è il paese che più ha recuperato il divario calcistico che ci separava da loro: i club inglesi sono sempre stati vincenti, mentre quelli spagnoli sono cresciuti durante gli anni '90, non solo attraverso Real e Barcellona.. i nomi di Deportivo La Coruna, Valencia, Villareal e Siviglia diranno certo qualcosa a molti. Beh, quel bilancio è cambiato. Non siamo più il campionato che accoglie un anno Zinedine Zidane, l'anno dopo Ronaldo, che ha giocatori come Batistuta, Rui Costa, Nedved, Shevchenko, Vieri. No, i tempi delle "sette sorelle", quando a contendersi il campionato erano sette squadre (le milanesi, le romane, Juventus, Parma e Fiorentina), sono finiti. Da un pezzo.

Il Parma vince la Coppa UEFA 1998/1999: l'ultimo trionfo
di una squadra italiana in questa competizione.


Cosa hanno fatto i tedeschi per migliorarsi in questa maniera? Semplice. Hanno lavorato su ciò che gli regala le maggior fortune in nazionale: i giovani. L'Italia ha sempre avuto una grandissima tradizione di giovani, con un Under-21 che negli anni '90 ha vinto di tutto. Ma c'è sempre la paura di rischiare, che il ragazzo possa bruciarsi dopo una stagione negativa, che al primo passaggio sbagliato verrà fischiato: ecco, è questo il motivo del nostro fallimento. Già. Perché se può reggere la scusa del marketing per i club inglesi o delle tasse molto più basse sugli ingaggi dei club spagnoli, il discorso regge meno per i club tedeschi. Certo, sfruttano il vantaggio di stadi straordinari, ma sono un gap recuperabile, se verrà impostato un certo corso basato sui giovani in tutti i club, anche quelli più grandi, e se verrà fatta una legge seria che permetterà la costruzione di impianti sportivi di proprietà.
Le sorelle non sono più sette e non solo per colpa della crisi: a giocarsela sono sempre le stesse, ovvero le due milanesi e la Juventus, che si è ripresa quest'anno proprio con un programma simile (alla lontana) a quello dei club tedeschi, premiato con la conquista dello scudetto. Ma quanto c'è voluto per arrivarci..
E adesso forse è il turno anche degli altri: il Milan non spende più un euro, comprando quasi sempre parametri zero e rischiando la cessione di due dei suoi pilastri proprio in queste ore; l'Inter ha mandato via quasi tutti gli eroi del Triplete, risparmiando sugli ingaggi e facendo un programma impostato su una squadra giovane, sulla stessa linea verde dell'allenatore; il Napoli ha ceduto Lavezzi per un'ottima cifra e adesso ripartirà dalla leggerezza di Lorenzo Insigne, talentino azzurro; la Roma spende più di tutti questi club, ma ha puntato sopratutto su giovani da far consacrare. Insomma, la strada maestra pare tracciata. Non bisogna vergognarsi di esser diventati esportatori: significa che qualcuno apprezza ancora il calcio italiano. Il problema, semmai, è un altro: ripartire.
E si può ripartire solo facendo giocare questi giovani, facendo capire al mondo che non c'è smobilitazione, ma semplicemente il calcio italiano sta rinascendo; del resto, sono prodotti buoni, altrimenti Verratti non sarebbe con un piede a Parigi per 14 milioni di euro. Prandelli agli Europei ha già dato una mano, ora tocca ai club dimostrare che il nostro mondo si può riprendere e dare una lezione a tutti. Altrimenti, continueremo a guardare altri che alzano coppe. E sarà un peccato, perché il potenziale c'è.

Lorenzo Insigne, 21 anni: uno dei giovani talenti su cui può contare l'Italia del futuro.

6.7.12

Euro-orrori.

Molti di noi faranno fatica a ricordare voci come quelle di Enrico Ameri e Nando Martellini, Sandro Ciotti ed Ezio Luzzi, nonché quella del famosissimo Nicolò Carosio. Anzi, non solo le voci, i nomi di questi signori saranno sconosciuti a chi - come me - consuma una dieta mediatica. Ma questi signori hanno segnato la storia di quella che era l'azienda leader non solo in Italia, ma sopratutto nello sport: la Rai. 
Già, la Radiotelevisione Italiana è stata il punto di riferimento per molti italiani durante molte manifestazioni sportive: su tutte, quelli internazionali che appartenevano al calcio. Che si trattasse di Europei o Mondiali, poco importava: la Rai aveva la capacità di farteli vivere totalmente, nella loro pienezza e magia.
Parlo al passato per tanti motivi. Perché la Rai non ha più il monopolio sulla più importante forma di comunicazione; perché si è dovuta scontrare con concorrenti agguerriti e, a volte, anche aiutati dall'alto. Ma sopratutto perché quei straordinari professionisti non si ritrovano quasi più nei ranghi dei telecronisti d'oggi.

Nicolò Carosio, radio e telecronista Rai, una delle voci più grandi nel mondo dello sport.

È notizia di ieri la querela di Paola Ferrari nei confronti di Twitter: la colpa del social network è quella di aver permesso la diffamazione nei confronti della conduttrice della Rai da parte degli utenti, spesso critici nei confronti della giornalista, anche attraverso "tweet" (i post di Twitter da 140 caratteri) riferiti alla sua età e al suo aspetto fisico. Quello che fa riflettere, però, è ben altro.
La sensazione è che la Ferrari non abbia capito gli insulti. Essi non sono giustificabili se riferiti esclusivamente a connotati personali. Ma forse non ha compreso che gli utenti (o la maggior parte di essa) non abbia digerito una conduzione degli Europei ampiamente scadente. Questi Europei di Ucraina e Polonia sono stati particolari e di certezze, spagnoli a parte, ce ne sono state poche. 
Se proprio ne dovessi scegliere una, però, è la certezza incrollabile che alla domanda "Come ti sembrano le telecronache di questi Europei?", la risposta è stata sempre la stessa: "No, non vanno". Sembrerà offensivo per professionisti che lavorano da anni sulla televisione pubblica, che avrebbe però il dovere (attenzione, non solo: è anche un diritto di chi paga il canone) di offrire un buon servizio pubblico, in grado di raggiungere gli obiettivi prefissati. 
L'obiettivo prefissato per una telecronaca di calcio è dimostrarsi competenti sulle squadre in campo, i giocatori che le compongono e la capacità di farne un racconto quanto meno ascoltabile. E forse è proprio questo che è mancato in questo Europeo: evento in esclusiva per la Rai, la competenza è sembrata un ricordo lontano. 
Quanti hanno allargato le braccia di fronte a certi strafalcioni? Quanti hanno pianto (dalle lacrime o dalle risate è un dettaglio) per le pronunce storpiate di alcuni giocatori? Quanti hanno sentito un profondo imbarazzo verso coloro che commentavano, avendo a che fare con certi errori macroscopici di conoscenza generale del calcio?
Errori provenienti sopratutto dagli opinionisti, che sono spesso ex calciatori e, per questo, compiono errori ancora più pesanti. I vari Fulvio Collovati, Vincenzo D'Amico, ma sopratutto Beppe Dossena si sono dimostrati inadatti a un ruolo così importante. Viene da chiedersi perché non si possa testare un 30 enne più preparato di gente che ha giocato a calcio, ma che non sembra avere dimestichezza con le telecronache.
La cieca difesa del presidente della RAI Garimberti di fronte alle critiche fatte anche da colleghi di altre emittenti (come quelle di Fabio Caressa di Sky, che non è immune da rimproveri, ma ha ragione quando diche che "in Rai manca una nuova scuola"), beh, è solo una ciliegina sulla torta di un disastro gigantesco.

Paola Ferrari, 52 anni, ha denunciato Twitter per diffamazione dopo Euro 2012.

Io stesso ammetto di aver tolto l'audio durante molte partite che ho guardato in questi Europei. O di averlo sostituito con l'audio di RTL 102.5, dal quale trasmetteva la Gialappa's Band, con la loro particolare radiocronaca sugli eventi calcistici internazionali che si rinnova ogni due anni. E che anche la Rai ha avuto in mano, ma ha preferito lasciare ad emittenti private dal 2009. 
Pur capendo che non si tratta di un commento tecnico, le disquisizioni colorite della Gialappa's erano preferibili allo stillicidio linguistico messo in atto dai telecronisti Rai. E anche i colleghi di RadioRai li hanno surclassati: Repice e Cucchi sono preparati, più di un Bruno Gentili che è sembrato impacciato anche nel commento della finale.
Ma sapete come si dice: meglio un sorriso che una lacrima. E allora vi propongo la Top 3 di questi Europei, sempre che non mi dimentichi qualche perla, dato che ho visto solo 14 partite. Non mi soffermo sul discorso delle pronunce: capisco che si possano sbagliare, anche se un approfondimento prima degli Europei avrebbe giovato.

3. Beppe, l'ottimismo
Il gradino più basso del podio è occupato dalle telecronache della nazionale: né Bruno Gentili, né Beppe Dossena hanno regalato telecronache positive. Su questo risultato, ha influito di più la presenza dell'ex centrocampista di Torino e Sampdoria: è stato sempre considerato un grande esperto di calcio africano, date le sue passate esperienze come c.t. del Ghana e attuale allenatore di una squadra etiope, ma non ha entusiasmato nel raccontare questi Europei. "Stanno facendo straccing" o il suo ottimismo immotivato sul 2-0 per la Spagna nella finale dell'Europeo, poco importa: non è stato un bell'Europeo, se raccontato da lui.

Tre mesi dopo, questa perla.

2. Povero Postiga
Vincenzo D'Amico è sicuramente uno degli esperti di calcio più bislacchi che abbia mai avuto modo di sentire (e la conferma che aver giocato a calcio non è un requisito di garanzia per fare una telecronaca decente). Durante Portogallo-Danimarca (finita 3-2 per i lusitani) tira fuori il meglio di sé: all'inizio bastona il povero Helder Postiga, attaccante della nazionale portoghese e giocatore del Real Zaragoza. 
Così D'Amico: "Bravo Agger a chiudere, ma Postiga troppo lento in questa situazione, non è giocatore da Europeo o grandi competizioni", scordandosi probabilmente che Helder Postiga aveva già alle spalle due Europei e un Mondiale disputati con la nazionale. Non fa niente: l'attaccante si prende la sua rivincita e, tre minuti dopo, mette dentro il momentaneo 2-0 per il Portogallo con una bella girata di destro.
Ma il nostro non ha ancora finito di deliziarci: sul 2-1 per il Portogallo, Cristiano Ronaldo si mangia un'occasione clamorosa, dimostrandosi non ancora in piena forma per la competizione. Passano pochi secondi e D'Amico profetizza: "Non vorrei portare iella, ma rischia di essere un errore importante"; passa qualche istante e Bendtner mette dentro il 2-2 danese. Non c'è che dire, un profeta.

1. Una gara memorabile
Ma le punte d'eccellenza (se così si può definirle) di quest'Europeo si raggiungono nella partita finale del Girone A, Russia contro Grecia. I greci devono vincere e sperare che nell'altra partita, Repubblica Ceca-Polonia, vi sia un risultato a loro favorevole. Intanto, il telecronista racconta una storia su Alan Dzagoev, talento del Cska Mosca: "Dzagoev frequentava una delle scuole di Beslan, la cittadina dove un commando ceceno nel 2004 prese in ostaggio e uccise oltre 300 bambini.  Ma lui quel giorno riuscì a salvarsi perchè non fu assaltata la sua scuola".
La reazione dell'opinionista al suo fianco, il magnifico Fulvio Collovati, è magistrale: "Davvero una storia molto bella".
Collovati, però, non ha finito di stupirci: la partita si conclude 1-0 per i greci, che passano al turno successivo, eliminando proprio la Russia, una delle possibili sorprese. Si chiude il collegamento, ma audio e video rimangono in onda. Dal nulla, si sente la voce di un Collovati adirato: "Comunque, è incredibile.. la Grecia è una squadra di m...", scandendolo in maniera netta per ben tre volte.

Notare come sia attento in onda e poi si lasci andare una volta staccato tutto.

Se il prossimo Europeo fosse in mano a Sky, spero che in Rai si facciano qualche domanda. Se si perdono determinati eventi, non è solo per mancanza di fondi, ma forse è anche per mancanza di competenze. Meno male che questi "Euro-orrori" sono finiti: ci si vede l'anno prossimo alla Confederations Cup. 

4.7.12

Gracias por todo.

Non c'è più nulla da dire: neanche la storia può contraddirli. Le Furie Rosse, il modello di calcio che tutti sognano, sono ormai nella leggenda: conquistando il secondo titolo europeo consecutivo nella finale di Kiev, essi realizzano il triplete di trionfi consecutivi, quello che solo la Germania Ovest aveva sfiorato. Infatti, i tedeschi lo avevano avvicinato con le vittorie dell'Europeo 1972 e del Mondiale casalingo del 1974, perdendo però nella finale dell'Europeo 1976 contro la Cecoslovacchia, solo ai calci di rigore.
Casillas e soci sono riusciti a fare di meglio: la storia li ha messi di fronte all'ennesimo record da battere e loro non hanno tradito. Anzi, hanno divertito e fatto ciò che meglio sanno fare: dominare l'avversario. Certo, ci sono diverse scusanti per l'Italia: la condizione fisica era ai minimi termini, molti giocatori-chiave non erano in forma e si era già fatto il massimo, facendo fuori la Germania. Ma la Spagna ha mostrato al mondo il perché è stato un modello da seguire negli ultimi quattro anni. E perché, probabilmente, lo sarà per chiunque aprirà un almanacco sul calcio nei prossimi anni.

E' un modello che nasce da lontano. E nasce dalle delusioni che il calcio spagnolo ha ricevuto per molti anni, nonostante abbia due squadre di club (Barcellona e Real Madrid) capaci di segnare la storia del calcio in modo indelebile. Ma, a livello di nazionale, è sempre mancato qualcosa. Non certo nei campioni, sempre presenti: dai vecchi Zamora, Gento, Luis Suarez ed i naturalizzati Puskas e Di Stefano agli assi degli anni '80 Santillana, Camacho, Michel e Butragueno; dai grandi Hierro, Zubizarreta, Guardiola e Luis Enrique ai più recenti componenti della nazionale, tra le stelle Raul, Morientes e le meteore (almeno con la maglia roja) Mendieta, Luis Garcia, Diego Tristan. Insomma, con la Spagna il giochino era sempre lo stesso (ancora valido con l'Inghilterra): ti chiedevi se sarebbero mai arrivati in fondo a qualche competizione e puntualmente rimanevi deluso dalle Furie Rosse, che spesso uscivano ai quarti dell'Europeo o agli ottavi di un Mondiale. Anzi, negli ultimi anni, era andata anche peggio: al Mondiale del 1998, la Spagna uscì nel girone con Nigeria, Paraguay e Bulgaria; all'Europeo del 2004, stessa fine nel girone con Grecia, Portogallo e Russia. Non sembrava facile per i spagnoli uscire da questa sorta di maledizione, per altro inspiegabile, dato che i giocatori convocati rendevano ottimamente nei club per poi sparire in nazionale.

Ribery, 29 anni, festeggia di fronte agli spagnoli negli ottavi del 2006: finirà 3-1 per i francesi.


Quando è cominciata quest'epopea? Quando è diventata realtà o, perlomeno, immaginazione possibile la figura di Casillas alzare un trofeo? Forse quel momento va identificato nell'arrivo di Luis Aragonés. Anzi, viene da aggiungere che sia il momento fondamentale: già, perché la nazionale spagnola è reduce dall'ennesima competizione vissuta da incompleti. Sul bilancio complessivo del Mondiale del 2006, pesano le contraddizioni mostrate nel torneo: 9 punti nel girone, con tre vittorie su tre; ma, al momento del salto di qualità, gli spagnoli perdono 3-1 con la Francia e salutano il Mondiale agli ottavi. Qui s'inserisce quello stratega che corrisponde al nome di Aragonés: è il C.T. della Spagna durante quel Mondiale e si rende conto che c'è bisogno di cambiare qualcosa. La Spagna ha fatto vedere qualcosa di quello che sarà il futuro modello delle Furie Rosse, ma è mancata nel momento decisivo.
Così Aragonés si mette al lavoro e trova le soluzioni giuste, da quel vecchio volpone della panchina che è: il C.T. spagnolo capisce che la squadra non è in grado di giocare con i muscoli contro squadre ben più dotate di quella iberica e decide di cambiare lo schema in campo ed il modo di giocare. La squadra, con l'aiuto dell'allenatore, comincia a sviluppare una versione 1.0 del famoso "tiki-taka", attraverso un forte possesso palla, molti passaggi corti e la capacità di tenere il pallone, avendo così in mano il pallino del gioco. Termine brevettato durante un match del Mondiale del 2006, Spagna-Tunisia, da un telecronista spagnolo. E, a mio modo di vedere, proprio qui stanno i grandi meriti di Aragonés: crea una nazionale che sarà la base dal quale partirà il modello spagnolo, poi sviluppato sia nei club (l'esempio è il Barcellona di Guardiola) che continuato in nazionale (con le Furie Rosse che perfezioneranno tale stile di gioco). Il risultato è che il "tiki-taka" teorizzato dal C.T. spagnolo viene addirittura una versione 2.0 del "calcio totale" olandese, con tanti tratti che ricordano il Barcellona curato da Johan Cruyff a cavallo tra gli anni '80 e '90.

Luis Aragonés, 73 anni: è stato lui l'artefice del modello spagnolo con Euro 2008.


I risultati sono presto visibili: nel gruppo di qualificazione al successivo Europeo in Austria e Svizzera, la Spagna domina il girone, mostrando anche un calcio spettacolare. Non mancano i passaggi a vuoto - come una clamorosa sconfitta nell'Irlanda del Nord - ma si può tutto aggiustare in vista dell'Europeo. Dove la Spagna non sbaglia una partita: nel girone con Svezia, Russia ed i campioni uscenti della Grecia, arrivano i "soliti" 9 punti, che fanno pensare alla solita illusione. Ma stavolta non sarà così: la Spagna soffre ai quarti con l'Italia (che schiera addirittura Cassano a limitare Sergio Ramos e le sue discese), ma passa ai rigori. In semifinale, contro la Russia, sconfigge gli avversari-rivelazione del torneo con una semplicità disarmante, vincendo per 3-0.
Arrivati alla finale contro i tenaci tedeschi del nuovo corso Loew, i ragazzi di Aragonés riescono finalmente ad essere concentrati nel momento decisivo: il "tiki-taka" non funziona come solito, ma il gol di Torres a metà del primo tempo permette alla Spagna di gestire abilmente il vantaggio e così arriva il secondo titolo europeo della loro storia. Inutile dire che Aragonés ha un gran merito nell'aver rilanciato la nazionale iberica: il suo 4-2-3-1 ha permesso alla Spagna di tornare a vincere qualcosa.

Fernando Torres, 28 anni, ha appena segnato il gol decisivo in finale contro la Germania.


Ma Luis Aragonés ha deciso che la sua avventura come C.T. della nazionale spagnola finirà con quel trionfo. Fortunatamente per le Furie Rosse, in Federazione hanno capito che la dinastia vincente può proseguire con il giusto tecnico: chi meglio di Vicente Del Bosque? L'ex tecnico di Real Madrid e Besiktas ha il curriculum giusto e la dose necessaria di "locura" per portare avanti il progetto: infatti, ha vinto con i Blancos due Liga, due Champions League, una Coppa Intercontinentale, una Supercoppa Europea ed una Supercoppa di Spagna. Mica male.
Oltretutto, Del Bosque - durante il suo periodo al Real - aveva il coraggio di schierare insieme Zidane, Raul, Morientes e Guti. Perciò, spazio all'ex Real, a cui era già stata proposta la panchina della Spagna nel 2004, dopo il disastroso Europeo in Portogallo: all'epoca rifiutò perché non interessato. Stavolta, accetta con grande piacere.
Durante la fase di qualificazione al Mondiale del 2010 in Sudafrica, il C.T. batte numerosi record: è il primo a vincere dieci partite dal suo debutto su una panchina in ambito internazionale, spezzando il record di Joao Saldanha, C.T. brasiliano del 1969, fermatosi a nove. Inoltre, durante la Confederations Cup 2009, la Spagna ottiene il record della maggiore striscia positiva sia di vittorie (15) che di risultati utili consecutivi (35): la sconfitta in semifinale contro gli Stati Uniti interrompe momentaneamente il momento magico, ma l'idillio è ormai in atto.

Vicente Del Bosque, 61 anni: con lui, la Spagna sarà ancora più forte.


La Spagna dimostra una concretezza mai vista al Mondiale sudafricano: la squadra iberica è in grado sia di giocare un calcio spettacolare, ma al tempo stesso di mantenere il controllo delle operazioni senza alcun sforzo, facendo girare a vuoto l'avversario. Il possesso palla si esaspera, ma i risultati arrivano, seppur con le dovute difficoltà: l'1-0 subito dalla Svizzera nell'apertura del girone H sorprende tutti. La Spagna si qualifica poi con due vittorie contro Cile e Honduras, ma sopratutto strapazza la concorrenza nella fase ad eliminazione diretta, battendo per 1-0 il Portogallo agli ottavi, il Paraguay ai quarti e la Germania in semifinale. In finale, il punteggio è lo stesso contro l'Olanda, con il gol ai supplementari di Andres Iniesta, che rende la Spagna - per la prima volta nella sua storia - campione del mondo.
Ci sono anche altri record a stupire per la concretezza dimostrata da Del Bosque e soci: con otto gol fatti e due incassati, la Spagna diventa la squadra ad aver vinto la Coppa del Mondo con il minor numero di gol sia realizzati che subiti nella storia della competizione; è la prima squadra a vincere la Coppa del Mondo dopo aver perso la partita d'apertura; è la sola squadra a non aver concesso gol nelle ultime quattro gare del torneo; infine, è l'unica squadra europea ad aver vinto la Coppa del Mondo al di fuori del vecchio continente. Praticamente storici.

Andres Iniesta, 28 anni: è lui il match-winner della finale dei Mondiali 2010.


In questo quadro, si cerca così la gloria, con l'obiettivo dichiarato di vincere l'Europeo 2012 in Ucraina e Polonia e riuscire dove ha fallito la Germania Ovest tra il 1972 ed il 1976: vincere tre importanti competizioni internazionali di seguito. La modifica al modulo, passato dal 4-2-3-1 ad un 4-3-3, non cambia il rendimento spagnolo, con la nazionale che si qualifica con il rendimento del 100% durante il gruppo di qualificazione agli Europei.
L'ultimo tocco è di Del Bosque: oltre al cambio di modulo, la Spagna gioca a volte senza un vero centravanti, di cui era necessaria la presenza dentro il 4-2-3-1, ma non nel 4-3-3, con Fabregas nel ruolo di prima punta. Un esperimento già portato avanti e riuscito discretamente in quel di Barcellona.
Il resto è storia recente: l'esperimento riesce e la Spagna fa un Europeo non spettacolare, ma di certo da squadra concreta e (sostanzialmente) imbattibile. Il girone con Italia, Croazia ed Irlanda è passato senza troppi patemi; i quarti con la timida Francia di Blanc sono una formalità; la semifinale con il Portogallo viene risolta solo dai rigori in favore degli spagnoli.
La Spagna fa la storia in finale: tutto il gioco di passaggi che puntano ad esasperare l'avversario viene spazzato via da un modo di giocare molto più veloce, più attento alla finalizzazione ed alla verticalizzazione. Ne sono dimostrazione tutti e quattro i gol, esempi straordinari di passaggi filtranti: in ognuna delle marcature, vi è il genio di qualche singolo che apre la strada alla fantasia dell'altro. I gol di Silva, Jordi Alba, Torres e Mata segnano il 4-0 finale ed il trionfo "senza se e senza ma".

Jordi Alba, 23 anni: una delle rivelazioni di Euro 2012, in gol in finale.


Viene da chiedersi se Del Bosque non possa essere considerato "il più grande", dato ciò che ha realizzato.
Viene da domandarsi se qualcuno potrà mai fare meglio di una nazionale del genere e se la Spagna potrà dare ancora di più nel Mondiale brasiliano del 2014.
Viene da immaginarsi ragazzini del futuro piangere perché vedranno i video di questa generazione di campioni e si diranno tristi: "E pensare che noi non li abbiamo mai visti giocare..".
Intanto, gracias por todo, Furie Rosse. Io mi godrò quegli anni di splendido calcio che avete ancora da regalarci; il calcio rimarrà, invece, colorato dalle vostre magie.

Iker Casillas, 31 anni, alza il trofeo di Euro 2012 con la sua squadra.