12.5.12

La fretta è cattiva consigliera.

Non c'è stato nulla da fare: nonostante gli appelli di giocatori e società a rimanere, Luis Enrique saluta la capitale e la squadra giallorossa. Lo fa con una gara d'anticipo. Non che la partita di domenica a Cesena avesse qualche significato per la Roma, già fuori dall'Europa dell'anno prossimo. Ma il segnale è stato forte: quello di un uomo che è provato proprio dallo stress della capitale e del campionato italiano piuttosto che dai risultati.

Luis Enrique, classe 1970, non ce la faceva più. Tutto qui. Arrivato nell'estate romana del 2011, tra grandi attese e speranze di eguagliare ciò che era ed è stato il Barcellona di Guardiola, il tecnico spagnolo aveva nel suo curriculum un'esperienza di serie inferiore in Spagna, ma che faceva sognare: egli aveva allenato il Barcellona B, la squadra del vivaio "barcelonista", dove sono cresciuti i vari Xavi, Iniesta e Messi. La stessa squadra di cui si era occupato Guardiola nel periodo pre-Barcellona. E che lo stesso Luis Enrique aveva condotto a buoni risultati, come la promozione dalla Segunda Division B (la nostra Lega Pro Prima Divisione) alla Segunda (la nostra Serie B) ed il conseguente terzo posto l'anno successivo. Unico peccato? Il Barcellona B non potrà mai salire in Liga perché creerebbe un conflitto d'interessi con il Barcellona: insomma, una promozione sul campo che tale non è stata nelle classifiche. Vista così, mi sembra addirittura di poter dire che il Barcellona B di Luis Enrique era di gran lunga migliore di quello di Pep Guardiola. Piccola soddisfazione, ma indiscutibile.

Ma tutto questo è bastato per attirare l'attenzione della Roma, dei nuovi proprietari americani e dei navigati Franco Baldini e Walter Sabatini. Nella presentazione, è ben chiara l'intenzione della società: creare un progetto. Forse è proprio su questo che molti si sono incaponiti e non hanno ben chiaro il perché Luis Enrique dovesse, probabilmente, rimanere. Ma lo spiegherò più avanti.
La campagna acquisti è da sufficienza stiracchiata: per carità, di soldi se ne spendono tanti, ma senza alcun criterio. Arrivano Stekelenburg, Kjaer, Heinze, José Angel, Gago, Marquinho, Pjanic, Lamela, Bojan, Osvaldo, Borini: di questi, se ne salveranno 3-4 nonostante una stagione chiaroscura e piena di tante mazzate. Che non esitano ad arrivare fin dall'estate: prima la clamorosa eliminazione da parte dello Slovan Bratislava nei preliminari di Europa League, poi la sconfitta alla prima di campionato all'Olimpico contro il Cagliari. Da lì in poi, sarà uno sali e scendi, con punte d'entusiasmo puntualmente stroncate da mazzate di valore epico: la Roma è riuscita - quest'anno - a vincere quasi tutte le partite contro le piccole, come una grande squadra dovrebbe fare. Peccato che poi, se analizziamo gli scontri diretti contro le squadre che stanno davanti ai giallorossi, il risultato sia impietoso: 1 punto con la Juve, 0 con il Milan, 3 con l'Udinese, 0 con la Lazio. Solo con Inter e Napoli (4 punti) il bilancio si può dire positivo. E comunque, fanno 8 punti in 12 partite contro le squadre che stanno davanti. Non si può puntare a qualcosa con questo ruolino di marcia.

In più, le difficoltà di Luis Enrique sono state, ancor più che tecniche, di tipo ambientale: i forti contrasti con il capitano Francesco Totti nelle prime fasi del suo mandato come allenatore; in più, alle prime sconfitte, la piazza (notoriamente poco paziente) ha reagito male e sono partiti prima i fischi, poi le contestazioni. E qui è mancata la "contestualizzazione" della situazione. Le critiche sono piovute sopratutto addosso all'allenatore, che sicuramente deve fare esperienza, ma che ha dato il massimo in termini di impegno, lavoro e dedizione alla causa. E che ha gestito questa stagione con una rosa larga, ma incompleta in alcuni ruoli (vedi terzini). Non si può certo disputare un buon campionato alla prima esperienza professionistica al di fuori dei confini iberici con questo materiale tecnico. Infine, anche i derby persi (due sconfitte nello stesso anno non arrivavano dal 1997/1998) ed il suo essere particolare nella gestione delle relazioni con i giornalisti non lo ha aiutato.


Al di là dell'intenzione goliardica nel video (che, giornalisticamente parlando, non mi riguarda), è chiaro che è un personaggio particolare. Come Mourinho. L'unica differenza è che un allenatore che si deve ancora formare e che, quindi, non ha potuto avere un credito di pazienza da parte della più importante componente della Roma: i tifosi. Che sicuramente posso dire siano stati più pazienti di altri anni, ma che hanno comunque avuto difficoltà ad accettare l'etichetta del progetto. E qui torniamo al punto iniziale e più importante di questa vicenda.

Quando i nuovi proprietari americani, Sabatini e Baldini, lo stesso Luis Enrique parlavano di progetto sin dall'inizio della stagione, la mia impressione è stata subito quella che il buon Luigi Enrico non sarebbe durato molto. A Roma, non c'è pazienza, calcisticamente parlando. E sia ben chiaro, non è una caratteristica unicamente a tinte giallorosse: è un tratto distintivo delle due tifoserie della capitale. Basti pensare al fatto che Reja è stato fischiato diverse volte in questi due anni, nonostante dei risultati eccellenti con la Lazio. Visto il disastro di quest'anno, a Luis Enrique era meglio concedere una seconda chance: con un gruppo che si conosceva da un anno, con delle tattiche che si sarebbero perfezionate e due-tre giocatori come si deve, la Roma avrebbe potuto fare un'ottima stagione l'anno prossimo, dato che - probabilmente - sarà anche senza coppe europee da disputare.

Insomma, la fretta è sembrata una cattiva consigliera. Personalmente, auguro a Luis Enrique ogni bene. C'è da dire che l'Italia gli è indigesta: prima la gomitata di Tassotti ai Mondiali del 1994, ora quest'anno tribolato a Roma..


Luis Enrique, 41 anni, nel giorno dell'esordio in Serie A contro il Cagliari.



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